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04/10/2020 - 27a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A


 
 

Is 5, 1-7; Sal 79/80; Fil 4, 6-9; Mt 21, 33-43


La vigna insanguinata

Dopo la parabola dei due figli, Gesù ci presenta anche quella dei vignaioli omicidi che l’evangelista Matteo accorpa in un unico racconto, accomunati dallo stesso tema e dagli stessi destinatari. Entrambe infatti hanno come tema la “vigna” e vengono rivolte ai “capi del popolo” d’Israele. Noi cercheremo di addentrarci anche nel significato di questa seconda parabola, senza tralasciare quello della prima, già trattato domenica scorsa. Per farlo ci lasceremo guidare da alcune domande, che potremmo formulare in questi termini: perché Gesù rivolge ai capi del popolo queste parabole? Qual è il messaggio che intende loro comunicare? Perché essi reagiscono con tanto rancore? Queste domande hanno evidentemente uno scopo didattico, oltre che contenutistico e le formulo nella speranza che esse possano aiutarci a predisporre in noi lo stesso atteggiamento di ascolto e di accoglienza del Vangelo che Gesù chiede ai suoi interlocutori.



In diverse parabole Gesù paragona il Regno di Dio alla vigna, come attestano i Sinottici (cf. quella Degli operai nella vigna – Mt 20, 1-16; Dei due figli – Mt 21, 28-32; Dei vignaioli omicidi – Mt 21, 33-41; Mc 12, 1-11; Lc 20, 9-18; Del fico sterile – Lc 13, 9-9). Della vigna parla anche Paolo in 1Cor 9,7 e Giovanni in Gv 15, 1-8 e Ap 14, 18.19. Si tratta di un tema che torna frequentemente anche nell’AT, di cui il testo di Isaia, propostoci dalla liturgia, è un emblematico esempio. Isaia la identifica con la casa d’Israele (Is 5,7), come ripete anche il versetto liturgico del Salmo, mentre l’autore del Cantico dei Cantici le conferisce un significato allegorico, paragonandola alla ragazza innamorata del re (cf. Ct 8, 11-12), preparando in questo modo il significato attribuito al ruolo del profeta, quale “amico dello sposo” che sta in attesa delle nozze, come attesta Ezechiele in 16, 4-15. Il Salmo 79/80, 8-20, anch’esso propostoci dalla liturgia di oggi, la associa al popolo, colto in un particolare momento di umiliazione da parte di Dio, sopraggiunta nel periodo della sua maggiore gloria.

Tali significati sfociano nel NT e vengono ripresi dallo stesso Gesù, che a sua volta reinterpreta la vigna alla luce del Regno di Dio, come emerge dal paragone col quale introduce le parabole. In quanto Regno la vigna acquista così un significato regale e una connotazione divina, la cui realizzazione richiede però una collaborazione umana; da qui la necessità di chiamare “operai” che la coltivino e la facciano fruttificare con il loro lavoro quotidiano, come evidenzia la parabola degli operai nella vigna (cf. Mt 20, 1-16), che si mostrino fedeli alla chiamata del ‘padrone’, come emerge da quella dei due figli (cf. Mt 21, 28-32) e responsabili della fiducia loro manifestata (cf. Mt 21, 33-45), come attesta la parabola in questione. Quest’ultima, infatti, racconta di un ricco proprietario che nutre un amore sviscerato per la sua vigna. A sua difesa pone una siepe, la circonda con una fossa e costruisce una torre d’avvistamento contro qualsiasi tipo di nemico. Per la sua crescita spende e spande senza misura. La dà, poi, in affitto, ponendo nei contadini, tutta la sua fiducia. Al tempo del raccolto, però, malgrado tutto, egli sperimenta una cocente delusione: i contadini gli si riversano contro, eliminando progressivamente i servi e come se ciò non bastasse, giungono ad uccidere perfino l’unico erede, pur di accaparrarsi della vigna stessa.

Il racconto traccia, con una breve sintesi, tutta la storia del popolo d’Israele ed in particolare la cura che Dio ha avuto per esso nel corso dei secoli e l’ingratitudine manifestata dai loro capi. Mentre Dio, infatti, si prodigava a favore del suo popolo, con segni di attenzione e amorevolezza, i suoi capi manifestavano una costante resistenza al suo disegno salvifico. Da qui la denuncia di Gesù della loro ipocrisia, rilevata anche dagli antichi profeti, con la quale mentre da una parte essi si vantavano di essere oggetto della salvezza universale di Dio, dall’altra ne precludevano l’accesso a chiunque ne facesse domanda.

È chiaro dunque che i destinatari delle due parabole sono i capi dei sacerdoti, anziani del popolo, scribi, farisei (cf. Mt 21, 23.32.45), insomma tutta gente culturalmente preparata. Un destinatario insolito se lo confrontiamo con l’uditorio abituale delle parabole. Solitamente, infatti, Gesù fa uso del linguaggio parabolico quando si rivolge a persone del popolo, alla gente comune, o “a quelli di fuori”, come li definisce nel Vangelo di Marco (Mc 4, 11). Il fatto invece che si rivolga in questo modo anche ai responsabili del popolo ci sorprende un po’. E fa sorgere qualche interrogativo: come mai Gesù pur conoscendo la loro preparazione culturale, parla in parabole? Non sarebbe stato più logico rivolgersi a loro con un linguaggio, per così dire, più teologico? Cosa giustifica l’uso del linguaggio parabolico anche nei loro confronti? La stessa metodologia comunicativa ci induce perciò a rivedere il significato di “quelli di fuori”. Da che cosa sono considerati “fuori”? E, chi sono realmente costoro? Di solito siamo abituati ad immaginarli come persone semplici, prive di cultura religiosa, che necessitano di un linguaggio facile, elementare per accedere alla realtà di Dio, invece nel nostro caso i destinatari non sono certo privi di una preparazione culturale, ancor meno teologica. Emerge chiaramente, allora, che costoro non sono “fuori” da una cultura religiosa, ma “fuori” da una mentalità evangelica. Pertanto l’uso del linguaggio parabolico non è destinato solo ad un uditorio incolto, bensì a quanti non dispongono della stessa mentalità teologica e spirituale di Gesù. Lo scopo della parabola dunque non è solo quello di essere comunicativamente chiari e semplici, ma quello di provocare un reale cambio di mentalità nei suoi interlocutori. Il che ci porta a dedurre che non basta essere culturalmente raffinati per cogliere il mistero del Regno di Dio, ma occorre disporre della stessa sensibilità religiosa e spirituale di Gesù. L’uso della parabola evidenzia perciò il tentativo di generare in loro questa nuova mentalità. Ed è interessante rilevare il modo con cui lo fa. La parabola rivela infatti il tatto relazionale, attento e delicato di Gesù, anche nei confronti degli interlocutori più accaniti ed ostili. Quando correggere Gesù lo fa sempre rispettando la loro intelligenza. Egli infatti più che rimproverare in modo frontale, pone loro una domanda conclusiva, mettendoli così nella condizione di prendere coscienza da se stessi della loro ipocrisia. Solo alla fine, infatti, essi capiscono che Gesù aveva tracciato esattamente il loro profilo. Da qui la dura decisione di togliere loro la responsabilità del Regno e di affidarlo “a un popolo che lo farà fruttificare” (Mt 21, 43).

Questa operazione compiuta da Gesù ci dà modo di riflettere anche sulla nostra ipocrisia. Ritengo importante soffermarci un attimo su di essa, non solo per prenderne coscienza, ma anche per capire il modo con cui liberarsene. Anche a noi, infatti, capita di sperimentare simili atteggiamenti, che si manifestano sotto forma di resistenza, di scarsa accoglienza, di ostilità e perfino di rifiuto. La presa d’atto di questi atteggiamenti ci invita a scendere nei meandri della nostra religiosità e a capire le cause che li determinano. Come mai, per esempio, pur professandoci cristiani, ci scopriamo così poco accoglienti di Cristo nella nostra vita? Cosa ci impedisce di aderire totalmente al suo Vangelo, di fare nostra la logica del suo amore e di riconoscere definitivamente Gesù come nostro “Signore” e “Salvatore”? Magari tanti lo fanno perché inseriti all’interno di un contesto religioso tradizionalmente cristiano che li porta, per sentito dire o per inerzia, a definire Gesù “Figlio di Dio” e “Salvatore”, ma quando capiscono realmente quello che ciò comporta nella vita ne prendono le distanze. Notiamo allora che lo scopo della parabola è decisamente provocatorio: col suo racconto Gesù fa cadere progressivamente l’attenzione tutta su di sé, sulla sua identità divina e sul fine salvifico della sua missione. È questo lo scopo della parabola. Tuttavia Gesù non lo dichiara esplicitamente, ma in modo velato, com’è tipico della parabola: lasciandolo intendere, senza forzare l’intelligenza, né condizionare la ragione. Solo quando prendono coscienza di questa conclusione e della sua portata teologica, i suoi interlocutori reagiscono violentemente, tanto da decidere di catturarlo e processarlo (cf. Mt 21, 45). Il messaggio della parabola dunque è chiaramente cristologico. In essa Gesù, anche se indirettamente dichiara, con ferma convinzione, di essere l’erede legittimo del Regno di Dio, che tradotto teologicamente, significa “Figlio di Dio”. Tale significato viene infatti confermato chiaramente nel versetto 42 del nostro capitolo: “La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile ai suoi occhi”. Ancora una volta dunque, come abbiamo già avuto modo di evidenziare in queste ultime domeniche, Gesù introduce nel piano d’amore di Dio un nuovo principio salvifico, da lui stesso inaugurato, secondo il quale la salvezza non è elargita più ai soli Giudei, ma estesa a tutti coloro che accolgono il suo Vangelo e manifestano la fede in lui.

L’ipocrisia dunque non è solo dei farisei. Essa è sempre in agguato in ciascuno di noi e scatta nella circostanza favorevole, nella forma che sfugge anche al nostro controllo. Non basta definirsi cristiani, per considerarsi esenti da questo rischio. Essa è un pericolo al quale sono esposti tutti coloro che decidono di vivere secondo una fede religiosa. E da questo rischio non sono esenti neppure coloro che svolgono un ruolo di responsabilità governativa nella Chiesa. Anzi, proprio essi sono i più esposti. Esattamente come accadeva per i farisei, gli scribi, i capi dei sacerdoti e del popolo. Come allora anche oggi capita di trincerarsi dietro l’immagine del perfetto moralista, ma di vivere un’esistenza secondo un costume liberale e perseguire una logica di vita che manifesta esclusivamente la propria volontà. L’incoerenza che si viene a creare tra lo stile di vita evangelico richiesto da Gesù e il nostro reale comportamento sociale determina l’ipocrisia. Essa perciò corrisponde a quel modo di pensare, dire e fare che ci porta a far credere agli altri ciò che in realtà non siamo. Per questa patologia religiosa e culturale esiste una sola terapia psicologica e spirituale: il desiderio autentico di essere se stessi e il confronto onesto e sincero con la volontà di Dio che scaturisce dalla conoscenza della sua Parola. Cercare, conoscere e fare la volontà di Dio è ciò che Gesù chiede ai discepoli di ogni tempo come cura per contrastare l’atteggiamento dell’ipocrisia. Pertanto solo chi come il salmista “decide nel suo cuore di compiere il santo viaggio” (cf. Sal 83, 6) e ripete continuamente: “Ecco, io vengo. / Sul rotolo del libro, di me è scritto di compiere il tuo volere. / Mio Dio, questo io desidero / la tua legge è nel profondo del mio cuore” (Sal 40, 8-9), può rimuoverla.

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