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06 Marzo 2022 - Anno C - I Domenica di Quaresima


 
 

Dt 26,4-10; Sal 90; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13


La tentazione: il banco di prova della conversione


Dopo aver cominciato – col rito delle Ceneri – il cammino di conversione e aver individuato nel digiuno, nell’elemosina e nella preghiera gli strumenti necessari per portarla a compimento, la liturgia di oggi ci introduce immediatamente nella dura realtà della tentazione (cf. Lc 4,1-13). Si tratta di una prova attraverso la quale bisogna necessariamente passare se s’intende verificare l’autenticità della propria conversione. Tentare infatti significa anche tastare, verificare, provare, esaminare. E ciascuno viene tentato nello specifico della sua chiamata.

Per comprendere questo aspetto della vita spirituale ci lasceremo sollecitare da alcune domande: Cos’è la tentazione? Da dove o da chi ha origine? Qual è la sua funzione? Con quale forma si manifesta? Come riconoscerla? Come vincerla? Si tratta di domande molto impegnative alle quali cercherò di rispondere con un linguaggio il più semplice possibile, nella speranza di essere di aiuto a chi desidera conoscere questa realtà più da vicino, in vista del proprio cammino quaresimale; senza tuttavia cedere alla pretesa di giungere a una conoscenza tale da poterla padroneggiare; convinto, invece, che la vittoria sulla tentazione è una questione di grazia, oltre che di virtù.

La fede cristiana intende per tentazione l’influsso negativo che il demonio esercita sull’uomo inducendolo al male. Si tratta perciò di un’azione malvagia che ha la sua origine nel male, quando viene inteso come forza maligna, oppure nel demonio, quando viene inteso come personificazione del male. In ogni caso la ragione della sua presenza nell’uomo e nel mondo, malgrado gli sforzi cognitivi e teologici, ci rimane sempre oscura e misteriosa. Ciò che possiamo dire sono i segni, i modi, le forme con cui esso si manifesta e gli effetti e le conseguenze che lascia la sua opera in noi, ma la sua realtà si sottrae alla nostra ragione.

La tentazione comincia ad essere avvertita in modo particolare quando ci si decide a intraprendere seriamente la vita spirituale, intesa come disciplina ascetica, ovvero come pratica che mira alla perfezione dell’amore, mediante l’esercizio delle virtù. “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (Sir 2,1). Inizia così l’istruzione del Siracide, come a voler predisporre ogni candidato a una lotta ineludibile. “Chi non è tentato, non sarà salvato”, ribadisce da parte sua anche sant’Antonio Abate.

L’apostolo Giacomo nella sua lettera ci dice che la tentazione ha un’origine maligna, e la sua funzione è quella di indurre al male. Essa, perciò, non proviene da Dio, in quanto egli non può indurre al male. Ciò non toglie che la tentazione possa tramutarsi anche in una prova divina. In questo caso serve a verificare la consistenza della fede[1]. Si deduce che esiste una tentazione che induce al male e una prova che conduce alla perfezione. In quest’ultimo caso Giacomo considera “beato colui che sopporta la tentazione, poiché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore promette a chi lo ama” (Gc 1,12). Interessante è anche il modo con cui egli descrive la dinamica tipica della tentazione, quando dice che essa comincia con la concupiscenza e non smette finché non viene raggiunto l’appagamento. L’appagamento, poi, porta al peccato, e “il peccato quando è consumato, produce la morte. (cf. Gc 1,15). È chiaro che la concupiscenza, o se si preferisce desiderio, non è volto solo all’appagamento del piacere sessuale, come siamo soliti pensare, poiché ciascuno può essere tentato da diverse cose come: oggetti, persone, potere, cibo, successo, ricchezza, prestigio … In tutti questi ambiti rimane vero ciò che dice sant’Agostino: “peccato non è sentire, ma l’acconsentire”.

La difficoltà a capire l’origine e la forma della tentazione fa sentire ancora più impellente la necessità del discernimento. A questo proposito sembrano interessanti le indicazioni di sant’Ignazio di Loyola, per il quale il discernimento consiste nella capacità di acquisire i criteri per riconoscere se un pensiero viene da Dio, dall’io o dal Nemico. Su questa base diventa possibile capire se una scelta è orientata al male o al bene. Com’è evidente il discorso ci introduce in un campo minato, nel quale non è facile muoversi, senza correre il rischio di rimanere feriti. Per questa ragione ricorriamo all’ausilio della testimonianza biblica, dove nel libro della Genesi, troviamo che l’autore, nel tentativo di descrivere la dinamica della tentazione, ricorre all’immagine del “serpente” (Gen 3,1). Si tratta di un’immagine simbolica, con la quale egli allude al modo con cui il maligno affascina, incanta, suggestiona, illude e avviluppa con le sue spire la preda prima di aggredirla, esattamente come fa un serpente. Questa immagine comunque ci ricorda che il male costituisce un concorso esterno, come ribadisce anche il libro della Sapienza, quando dice che: “Dio ha creato l’uomo per l’immortalità … ma la morte è entrata nell’uomo per invidia del Diavolo”. Il peccato tuttavia può originarsi anche nel cuore dell’uomo, quando questi comincia ad assimilare la logica di vita del serpente, come lascia intendere il dialogo che questi intesse con Eva (cf. Gen 3,1-6).

Non mancano nella Bibbia tentativi in cui si cerca di definire anche la natura e l’identità del maligno. Il libro di Giobbe, per esempio, si cimenta con questo difficile compito, offrendoci un valido contributo, quando qualifica la realtà del male in termine di “Satana”. Stando alla sua descrizione Satana sarebbe una creatura della corte celeste, il cui compito è quello di sorvegliare la terra e l’umanità a nome di Dio e riferirgli continuamente la loro condizione (cf. Gb 1,6-12)[2].

Satana è però solo uno dei nomi con cui viene qualificato il tentatore. La tradizione biblica, apostolica e patristica ce ne offrono anche altri come: Belzebul, Belial, Belfagor, Lucifero, Leviatan, Mefistofele, Moloch, Mammona, Asmodeus … e tanti altri. Tutti nomi con un preciso significato che intendono qualificare la funzione, l’identità o la natura di colui che nei Vangeli viene definito Diavolo (cf. Mt 4,5), Nemico dell’uomo (cf. Mt 13,28), Principe del mondo (cf. Gv 12,31; 14,30), Menzognero o Anticristo (cf. 1Gv 2,22), il cui scopo è quello di separare l’uomo da Dio, attraverso l’inganno; nonché quello di negare l’identità divina di Cristo e contrastare la sua azione salvifica.

Nessuno, dunque, è esente dalla prova della fede, neppure Gesù, come ci attestano tutti i Vangeli, quando lo ritraggono nel deserto, dove viene condotto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo (cf Mt 4,1-11; Mc 1,12-13; Lc 4,1-13; Gv 1,29-34). Al pari di ogni uomo anche lui si sottopone volontariamente alla terribile prova della tentazione, che supera non già ricorrendo al suo potere divino, col quale avrebbe potuto facilitare la sua vittoria, e neppure appellandosi solo alle sue virtù, come può capitare agli asceti, ma confidando principalmente in Dio: “Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido” (Sal 90). “Chiunque crede in lui non sarà deluso” e “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo” ci ricorda san Paolo nella sua lettera ai Romani 10,12-13. Gesù, senza escludere il concorso delle virtù come attesta il suo prolungato digiuno nel deserto (cf. Lc 4,2), ci rivela lo straordinario potere della preghiera, quale strumento fondamentale per dominare la tentazione, come lui stesso dirà ai suoi discepoli: “Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera” (cf. Mc 9, 29). Lungi dal sottrarsi o cedere ad essa egli ci insegna a vivere la tentazione come occasione in cui dare prova dell’autenticità della nostra conversione, durante questo periodo quaresimale.


[1]Il popolo d’Israele viene sottoposto a questa prova per circa 40 anni, duranti i quali la tentazione assume diverse forme che vanno dalla nostalgia della vita passata (cf. Nm 11,4-5) a quella dell’idolatria (cf. Es 32,1-6). La permanenza nel deserto serve a verificare l’autenticità della loro scelta di vita, come emerge da questo passo del Deuteronomio: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi” (Dt 8,2). In questa prospettiva si pone anche l’autore della lettera agli Ebrei, il quale ci dice che tutta la storia biblica, a partire da Noè, è costellata dalle prove della fede (cf. Eb 11). [2]In questo libro l’autore ci fa capire che Satana roso dall’invidia della rettitudine morale di Giobbe è convinto che prima o poi dovrà cedere. Ai suoi occhi non è possibile che un uomo possa rimanere sempre integro nella sua onestà. La sua caduta dipende dalla qualità della proposta che gli viene fatta. Secondo Satana Giobbe è felice non perché è unito a Dio, ma perché Dio lo copre di beni. Tutta la fede di Giobbe dipende dalla generosità di Dio. Non appena Dio lo priverà dei suoi beni egli sarà pronto a tradirlo e rinnegarlo. Convinto di tutto ciò Satana chiede a Dio il permesso di metterlo alla prova. Da parte sua Dio è pronto a scommettere sulla fedeltà di Giobbe, tuttavia, concede a Satana la possibilità di provarlo. Questo racconto ci fa capire come la tentazione pur motivata da Satana ha in Dio il suo unico principio. Questo infatti sembra essere lo scopo della seguente affermazione: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male” (Gb 2, 10), con la quale viene evitato in questo modo il rischio di intendere Dio e Satana due principi contrapposti: l’uno come principio del bene, l’altro come principio e del male, come accadrà con l’eresia manicheista (dottrina elaborata da Mani che considerava il Bene e il Male come due principi assoluti, squalificando in questo modo l’autorità unica di Dio).

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