10 Aprile 2022 - Anno C - Domenica delle Palme
- don luigi
- 9 apr 2022
- Tempo di lettura: 6 min
Lc 19,28-40; Is 50,4-7; Sal 21/22; Fil 2, 6-11; Lc 22, 14-23,56
La via Paschalis

La liturgia della Parola prevista per la Domenica delle Palme è così ricca di spunti tematici che diventa praticamente impossibile sviscerarla nell’arco di un’omelia. Da qui il motivo di limitarmi a individuare solo alcune chiavi di lettura che possono aiutarci a cogliere il senso e la necessità[1] della Passione di Cristo. Tra queste chiavi di lettura vi è senza dubbio quella del brano paolino della lettera ai Filippesi, grazie alla quale abbiamo persino la possibilità di conoscere i “sentimenti” che hanno accompagnato Gesù durante la sua Passione e le ragioni che lo hanno indotto a dare la sua vita per noi.
Per descriverle vorrei partire da lontano e precisamente da un versetto del capitolo 9 del Vangelo di Luca, dove l’evangelista annota che: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9,51). Questo versetto che chiaramente esula dalla liturgia della Parola di quest’oggi, ci dà modo di recuperare il brano dell’Ingresso di Gesù in Gerusalemme (cf. Lc 19,28-40), che fa da preludio alla nostra celebrazione, e soprattutto di cogliere l’atteggiamento “determinato” con cui Gesù s’avvia alla sua “passione”. Pur travolto dalla straordinaria accoglienza della gente egli non si lascia condizionare dal loro entusiasmo e dalla loro repentina volubilità, al contrario rimane più che mai fermo nella decisione di portare a termine il piano salvifico del Padre. La traduzione italiana di questo versetto, anche se descrive in pieno l’atteggiamento “fermo e risoluto” di Gesù, non riesce però a garantirci l’espressione piuttosto colorita di Luca, il quale parla letteralmente di un Gesù che “indurì la faccia”, lasciandoci intendere in questo modo non solo la radicale determinazione, ma anche la coscienza con cui va incontro alla morte.
Posto all’inizio del nostro commento questo versetto intende predisporci a vivere la Settimana Santa, favorito anche dai “tre annunci della Passione” (cf. Lc 9,22.44; 18,31-33), nei quali esso è inserito. La sua funzione perciò è quella evitare di limitarci a celebrarla con quello spirito devozionistico, tipico della tradizione religiosa popolare che spesso riduce la fede solo ad una partecipazione intimistica ed epidermica della sofferenza di Cristo. Diversamente intendiamo coglierne il senso autentico, convinti anche – come afferma san Paolo – che “se veramente partecipiamo delle sue sofferenze parteciperemo anche della sua gloria” (Rm 8,17). Si tratta allora di vivere questa Settimana Santa – come ci ricorda sempre san Paolo nella sua lettera ai Filippesi – con “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), il quale “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso, la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo … umiliò se stesso, facendosi obbediente, fino alla morte e alla morte di croce” (cf. Fil 2,6-8). Un passo decisivo questo di Paolo, poiché che ci rivela le ragioni e i sentimenti con cui Gesù è andato incontro alla sua morte. Per esprimerli Paolo ricorre al termine greco ekenosen che letteralmente significa “svuotare”. In altre parole, Gesù, decide di vivere la sua passione, rinunciando a tutti quelle prerogative divine che avessero potuto alleviare o evitare la sua sofferenza, al fine di condividere fino in fondo la fragilità della nostra natura umana. In altre parole egli, alla maniera del Servo sofferente di cui parla Isaia, non “oppone resistenza” e “non si tira indietro” (Is 50,5), dinanzi “ai suoi flagellatori” e a nessuna forma di violenza che viene ripetutamente perpetrata nei suoi confronti, al contrario le vive come occasione per manifestare la sua umiltà e la sua obbedienza, convinto di lasciarsi plasmare così, dalla volontà del Padre. Ciò che anima la decisione di Gesù è la certezza che solo crocifiggendo in sé la tentazione di sottrarsi alle sue responsabilità, tali condizioni avrebbero fatto di lui e della sua vita un’autentica testimonianza d’amore e quindi uno strumento di salvezza. Questa determinazione con cui Gesù vive la passione e morte potrebbe spaventare qualcuno di noi e in effetti Gesù avrebbe potuto benissimo evitare la sofferenza e invece decide liberamente di assumerla e di attraversarla, fino a voler provare su di sé tutte le conseguenze del peccato, compresa la morte. Questa decisione volontaria, compiuta per amore di Dio e per l’uomo, gli consente di trasformare la sofferenza e la morte da limiti distruttivi della natura umana in strumenti salvifici. La sua umiltà, fedeltà e obbedienza diventano così le condizioni supreme con le quali egli dà testimonianza del suo amore redentivo. In questo senso chiunque, come lui decide di vivere la sofferenza e la morte motivato da questi stessi sentimenti partecipa del piano redentivo di Dio. Aderire alla fede di Cristo significa allora connotare la propria esistenza della stessa fiducia incondizionata e totale che egli pone nel Padre, specie nelle circostanze più dure della vita, certi che egli non ci abbandona nelle nostre “passioni” quotidiani, al contrario ci dà modo di trasformarle in luoghi di purificazione e redenzione. Il nocciolo della fede in Cristo consiste perciò nel prendere parte alle sue sofferenze, per essere da lui salvati e divenire con lui strumenti di salvezza degli altri. Pertanto quando affiorano anche dal nostro io religioso quei sentimenti autoredentivi che nascono dalla presunzione di un riscatto personale e affermazione di sé, san Paolo ci invita a piegarli e a trasformarli in sentimenti di umiltà e obbedienza, per affermare così l’unico primato di Dio, ovvero quello dell’amore e del perdono, con cui lui ci salva in Cristo Gesù. Avere chiaro questo nucleo fondativo della fede significa impegnarsi a liberarla di tutte quelle sovrastrutture di cui l’abbiamo caricata nel corso della storia e che le impediscono di sprigionare la forza vitale e redentiva che la caratterizzano. Per aderire a questo spirito di fede occorre, come dice Isaia, lasciarsi abituare da Dio “ogni mattina a fare attento il proprio orecchio” (Is 50,5), ovvero ad affinare la propria intelligenza spirituale per cogliere il modo e la forma con cui Dio dispiega la sua volontà nel quotidiano della nostra fede. Non sempre è facile riconoscerla, poiché essa “non ha né apparenza né bellezza per attirare la nostra attenzione” (cf. Is 53,2), al contrario passa facilmente inosservata, tanto è offuscata dalla logica del mondo. Ricercarla significa oggi compiere delle autentiche scelte di campo, perfino nelle nostre comunità ecclesiali.
Ripercorrere la passione di Cristo attraverso il brano evangelico di Luca significa allora passare attraverso le diverse le tappe che la tradizione spirituale ha cristallizzato nella pratica della via Crucis. Essa è certamente una prassi spirituale che esprime una forma di religiosità sincera, semplice, genuina, popolare, ma lo spirito con cui viene praticata è spesso caratterizzato da un pietismo che si esaurisce in una religiosità formale e superficiale, e impedisce di tradurre la fede in una scelta di vita autenticamente evangelica. Tale pratica, com’è evidente, fa leva sulla sofferenza intesa più come forma di sacrificio umano che non come condizione di redenzione divina. In realtà i Vangeli ci dicono che la Passione e Morte di Cristo non sono disgiungibile dalla sua Risurrezione. La Passione e Morte appaiono assurde e incomprensibili, prive della luce della Risurrezione, allo stesso modo la Risurrezione risulta inaccessibile, senza passare necessariamente attraverso la Passione e Morte. Passione-Morte-Risurrezione costituisce dunque un tutt’uno che qualifica il nucleo salvifico e vitale della fede cristiana. Tale nucleo viene definito dalla teologia in termini di Kerigma o Evento Pasquale.
Più che una Via Crucis che pone l’accento sulla drammatizzazione popolare della sofferenza occorre allora praticare una Via Paschalis, che tende ad evidenziare anche la speranza della risurrezione[2]. La questione dunque non è imitare pedissequamente Gesù, ma vivere le nostre sofferenze e le nostre prove quotidiane nella luce della sua passione, consapevoli di condividere e di portare nella nostra carne le sue stimmate, e di completare ciò che manca alle tribolazioni della Chiesa di Cristo (cf. 1Col 1, 24). È in questi termini che anche noi possiamo distendere nella storia l’evento pasquale di Cristo ed offrire al Padre il vero contributo alla realizzazione del suo piano salvifico nella storia.
[1] In diverse occasioni Gesù parla della “necessità” di passare attraverso la sofferenza. Basterebbe rileggere ciò che lui ricorda ai due Discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,25-26) oppure i Tre annunci della passione (cf. Mt 16,21; Mc 8,31; Lc 9,22), per rendersi conto dell’importanza che egli attribuisce alla sofferenza, quale condizione per giungere alla gloria della risurrezione. [2] A questo proposito vi invito a seguire l’itinerario tracciato nel mio opuscolo Via Paschalis che vi propongo come testo di commento per una rinnovata rilettura della Passione di Cristo. Chi desidera prendere visione del testo può collegarsi al mio sito www.luigirazzano.com
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