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13 Aprile 2025 - Anno C - Domenica delle Palme


 

Lc 19,28-40; Is 50,4-7; Sal 21/22; Fil 2,5-11; Lc 22, 14-23,56

 


La logica della “passione”


Luigi Razzano, Via Paschalis - L'incontro con la Veronica (2022), Oasi dei PP. Cappuccini, Arienzo (Ce)
Luigi Razzano, Via Paschalis - L'incontro con la Veronica (2022), Oasi dei PP. Cappuccini, Arienzo (Ce)

“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, … e ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore! A gloria di Dio Padre” (Fil 2,5-11).

La liturgia della Parola prevista per la Domenica delle Palme è così ricca di brani biblici e spunti tematici che diventa praticamente impossibile sviscerarla nella sua interezza. Da qui l’opportunità di limitarci a individuare solo qualche chiave di lettura per cogliere la logica della Passione di Cristo. Nel compiere questa operazione trovo fondamentale il riferimento al brano paolino della lettera ai Filippesi, grazie al quale abbiamo persino la possibilità di conoscere i “sentimenti” che hanno accompagnato Gesù durante la Passione e le ragioni che lo hanno indotto a dare la sua vita per noi.

Per introdurci nel nostro argomento vorrei partire da lontano e precisamente da un versetto del capitolo 9 del Vangelo di Luca, dove l’evangelista annota che: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, (Gesù) si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9,51). Questo versetto che chiaramente esula dalla liturgia della Parola di quest’oggi, ci dà modo di recuperare il brano dell’Ingresso di Gesù in Gerusalemme (cf. Lc 19,28-40), che fa da preludio alla nostra celebrazione, e soprattutto ci permette di cogliere l’atteggiamento “determinato” con cui Gesù s’avvia alla sua “passione”. Pur concedendosi alla straordinaria accoglienza che la gente gli riserva nel suo ingresso a Gerusalemme, non si lascia condizionare né dal loro entusiasmo, né dalla loro repentina volubilità, al contrario, rimane più che mai fermo nella decisione di portare a termine il piano salvifico del Padre. La traduzione italiana di questo versetto, anche se descrive in pieno l’atteggiamento “fermo e risoluto” di Gesù, non riesce però a garantirci l’espressione piuttosto colorita di Luca, il quale parla letteralmente di un Gesù che “indurì la faccia”, lasciandoci intendere in questo modo non solo la radicale determinazione, ma anche la coscienza con cui va incontro alla morte.

Posto all’inizio della Liturgia questo brano intende introdurci nella Settimana Santa, inserito com’è anche tra le pericopi dei “tre annunci della Passione” (cf. Lc 9,22; 9,44; 18,31-33). La sua lettura perciò dovrebbe aiutarci a prendere coscienza – come afferma san Paolo – che nella misura in cui “partecipiamo delle sofferenze di Cristo parteciperemo anche della sua gloria” (Rm 8,17). Da qui l’importanza di fare nostri gli stessi sentimenti con cui Cristo Gesù è andato incontro alla passione e morte (cf. Fil 2,5).

Ma di quali sentimenti parla Paolo? Per individuarli rileggeremo con maggiore attenzione il brano paolino: “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso, la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo … umiliò se stesso, facendosi obbediente, fino alla morte e alla morte di croce” (cf. Fil 2,6-8). Nell’introdurli Paolo ricorre a un termine greco: ekenosen che significa “svuotare”, ma che la versione italiana preferisce tradurre con “spogliare”.  Gesù, letteralmente, “si spoglia della sua natura divina”, rinunciando cioè a tutte quelle prerogative divine che avessero potuto favorirgli un’esistenza più agevole. Il che significa che egli non ha scelto di vivere da Dio, perseguendo la via del riconoscimento glorioso a livello sociale e politico o della ostentazione divina, come gli proponeva Satana nel deserto, all’inizio della sua vita pubblica (cf. Le tentazioni Lc 4,1-13), ma nel nascondimento dell’umiltà e della mitezza. Egli decide di vivere tutta la sua vita secondo la logica naturale dell’incarnazione, sottoponendosi a tutte le condizioni evolutive che essa comporta. Umanizzandosi, non ha assunto la forma di un uomo ideale sotto il piano fisico – alla maniera greca per intenderci – e neppure sotto il profilo sociale. Non ha scelto di essere un dignitario regale, religioso, politico. Egli non era né un re, né imperatore, e neppure un militare, un governatore, un sacerdote, un filosofo o uomo di cultura; insomma un uomo ragguardevole a livello sociale, ma decise di collocarsi nella categoria dei servi, senza tuttavia mai sminuire la dignità e la statura di uomo carismatico e autorevole qual era. E rimase fedele a questa logica anche nella passione, durante la quale non si appellò a nessun potere che potesse salvaguardarlo dalle quelle drammatiche conseguenze che si andavano prospettando a seguito delle sue decisione religiose. Per questa ragione, non si sottrasse neppure alle violenze che in diversi modi e forme si accanivano contro di lui. Non “oppose resistenza” e “non si tirò indietro”, dinanzi “ai suoi flagellatori” (Is 50,5), al contrario, visse queste circostanze come pretesto per verificare la sua umiltà e la sua obbedienza al piano salvifico del Padre, lasciandosi plasmare da esse fino ad assumere l’aspetto di un uomo che “non ha né apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi”. Diventando in questo modo un “uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia tanto sfigurato era il suo volto e il suo aspetto. Un uomo disprezzato e senza alcuna stima, castigato, percosso e umiliato da Dio” (cf. Is 53,2.3; 52,14). L’autore della lettera agli Ebrei dà un’interpretazione mirabile di questa condizione pienamente umana con cui Cristo vive la sua esistenza terrena, quando afferma che: “nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,7-9).

La determinazione con cui Gesù vive la passione e morte potrebbe spaventare tanti di noi e in effetti, a ben guardare, Gesù avrebbe potuto benissimo evitare la sofferenza, e invece parla addirittura di necessità[1], decidendo liberamente di assumerla e di viverla, fino a voler provare su di sé tutte le conseguenze del peccato, compresa la morte. Questa decisione volontaria, compiuta per amore di Dio e per l’uomo, gli consente di trasformare la sofferenza e la morte da limiti letali per la natura umana in luoghi salvifici. La sua umiltà, fedeltà e obbedienza diventano così le condizioni supreme con le quali egli dà testimonianza del suo amore redentivo. In questo senso chiunque, come lui, decide di vivere la vita, compresa la sofferenza e la morte, motivato da questi stessi sentimenti, partecipa del piano redentivo di Dio. Aderire alla fede di Cristo significa allora connotare la propria esistenza della stessa fiducia incondizionata e totale che egli pone nel Padre, specie nelle circostanze più dure della vita, certi che egli non ci abbandona nelle nostre “passioni” quotidiani, al contrario ci dà modo di trasformarle in luoghi di purificazione e redenzione. Il nocciolo della fede in Cristo consiste perciò nel prendere parte alle sue sofferenze, per essere da lui salvati e divenire con lui strumenti di salvezza degli altri.

Pertanto quando affiorano anche dal nostro io religioso quei sentimenti autoredentivi che nascono dalla presunzione di un riscatto personale e affermazione di sé, san Paolo ci invita a piegarli e a trasformarli in sentimenti di umiltà e obbedienza, per affermare così l’unico primato di Dio, ovvero quello dell’amore e del perdono, con cui lui ci salva in Cristo Gesù. Avere chiaro questo nucleo fondativo della fede significa impegnarsi a liberarla di tutte quelle sovrastrutture di cui l’abbiamo caricata nel corso della storia e che le impediscono di sprigionare la forza vitale e redentiva che la caratterizzano. Per aderire a questo spirito di fede occorre, come dice Isaia, lasciarsi abituare da Dio “ogni mattina a fare attento il proprio orecchio” (Is 50,5), ovvero ad affinare la propria intelligenza spirituale per cogliere il modo e la forma con cui Dio dispiega la sua volontà nel quotidiano della nostra vita. Non sempre è facile riconoscerla, poiché essa spesso ci appare come Gesù, ovvero come ciò che “non ha né apparenza né bellezza per attirare la nostra attenzione” (cf. Is 53,2), al contrario, passa facilmente inosservata, tanto è offuscata dalla logica del mondo. Ricercarla significa praticare un serio discernimento così da compiere delle autentiche scelte di campo, perfino nelle nostre comunità ecclesiali.

Viene perciò da chiedersi: cosa ha indotto Gesù a comportarsi in questo modo? E perché ha scelto di vivere secondo questa logica di vita? Ciò che anima la decisione di Gesù è la certezza che solo crocifiggendo in sé la logica umana dell’affermazione dell’io, senza sottrarsi alle sue responsabilità, tali condizioni avrebbero fatto di lui e della sua vita un’autentica testimonianza d’amore e quindi uno strumento di salvezza. Sono questi i sentimenti che devono guidare ciascuno di noi, nelle circostanze in cui avvertiamo che anche a noi il Padre propone di sottoporci ad una prova di fedeltà, per conformarci alla sua volontà, così da aderire pienamente al suo piano salvifico.

Ripercorrere la passione di Cristo attraverso il brano evangelico di Luca comporta allora la decisione di fare propria la logica che animato la sua sofferenza e soprattutto la ragione che giustifica il suo amore per un’umanità che, nonostante tutto, continua inspiegabilmente a resistergli. La questione, tuttavia, non è limitarsi ad imitare pedissequamente Gesù, i suoi gesti, i suoi detti, le sue abitudini, come suggerisce una certa spiritualità tradizionale e religiosità popolare[2], ma vivere le nostre sofferenze e le nostre prove quotidiane nella luce della sua passione e morte, consapevoli – come afferma san Paolo – di condividere e di portare nella nostra carne le sue stimmate, e di completare ciò che manca alle tribolazioni della Chiesa di Cristo (cf. 1Col 1,24). È in questi termini che anche noi possiamo perpetuare nella storia l’evento pasquale di Cristo ed offrire al Padre il vero contributo alla realizzazione del suo piano salvifico nella storia. 

 

 

 

 

 


[1] In diverse occasioni Gesù parla della “necessità” di passare attraverso la sofferenza. Basterebbe rileggere ciò che lui ricorda ai due Discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,25-26) oppure i Tre annunci della passione (cf. Mt 16,21; Mc 8,31; Lc 9,22), per rendersi conto dell’importanza che egli attribuisce alla sofferenza, quale condizione per giungere alla gloria della risurrezione.

[2] Tra le varie forme di spiritualità che si sono sviluppate nel corso della tradizione ecclesiale va annoverata anche quella che ha cristallizzato la “passione” nella pratica della via Crucis. Essa è certamente una prassi spirituale che esprime una forma di religiosità sincera, semplice, genuina, popolare, ma lo spirito con cui viene praticata è spesso caratterizzato da un pietismo che si esaurisce in una religiosità formale e superficiale, e impedisce di tradurre la fede in una scelta di vita autenticamente evangelica. Tale pratica, com’è evidente, fa leva sulla sofferenza intesa più come forma di sacrificio umano che non come condizione di redenzione divina. In realtà i Vangeli ci dicono che la Passione e Morte di Cristo non sono disgiungibile dalla sua Risurrezione. La Passione e Morte ci appaiono assurde e incomprensibili, quando vengono osservate prive della luce della Risurrezione; allo stesso modo la Risurrezione risulta inaccessibile, se si pensa di sperimentarla evitando di passare necessariamente attraverso la Passione e Morte. Passione-Morte-Risurrezione costituisce dunque un unico evento inscindibile che qualifica il nucleo salvifico e vitale della fede cristiana. Tale nucleo viene definito dalla teologia in termini di Kerigma o Evento Pasquale. Più che una Via Crucis che pone l’accento sulla drammatizzazione popolare della sofferenza occorre allora parlare, e ancora più praticare, una Via Paschalis, che tende ad evidenziare anche la speranza della risurrezione.

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