16 Febbraio 2025 - Anno C - VI Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 15 feb
- Tempo di lettura: 8 min
Ger 17,5-8; Sal 1; 1Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26
La povertà evangelica

“Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. … Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete” (Lc 6,20-21.24-25).
I brani evangelici di queste ultime domeniche sembrano caratterizzati da un filo conduttore che ci consente di cogliere una profonda unità tematica. Se col discorso inaugurale nella Sinagoga di Nazaret, Gesù traccia il profilo della sua identità messianica, col discorso delle Beatitudini disegna il profilo del discepolo evangelico. Il beato di cui parla Gesù non è il pio seguace che imita ingenuamente il Vangelo; al contrario, è colui che sceglie di condividere volontariamente lo stesso destino profetico del maestro: “Beati voi quando gli uomini vi odieranno … vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’Uomo” (cf. Lc 6,24). Il ritratto che scaturisce da queste affermazioni è quello di un discepolo che fa dello stile evangelico un autentico segno di contraddizione, nei confronti della mentalità culturale e sociale in cui vive, esattamente come Gesù (cf. Lc 2,34-35).
Tra le diverse forme di beatitudini di cui parla Gesù in questo discorso, noi ci soffermeremo in modo particolare sulla “povertà”, della quale Gesù espone una visione che contrasta visibilmente non solo con la mentalità comune, ma persino con quella religiosa dell’Antico Testamento. Da qui il tentativo di comprenderne il significato evangelico originario, se non altro per verificare se e a quali condizioni essa può avere una forma di attualizzazione nel nostro contesto culturale e sociale.
Stando alla tradizione veterotestamentaria il beato è colui che, riconosciuto giusto, viene retribuito da Dio con la sovrabbondanza dei beni. Secondo questa mentalità la ricchezza è un segno della benedizione di Dio (cf. Gen 13,2; 26,12-14; Dt 8,7-10; 28,1-11), e questa si manifesta in diversi modi, come può essere la numerosa discendenza, il benessere materiale, il prestigio e l’onore personale … tutte qualità che consentono di avere una vita indipendente e libera dalle contingenze quotidiane e sociali. Basterebbe leggere il libro di Giobbe per avere un’idea di quanto fosse radicata questa mentalità religiosa in territorio ebraico, anche al tempo di Gesù. Di contro, il maledetto è colui che, a causa dei peccati, viene spogliato di quello che possiede e ridotto in povertà, malattie e schiavitù. Gesù, prende le distanze da questa mentalità religiosa e considera la povertà una forma di beatitudine, anzi, perfino un motivo di glorificazione da parte di Dio: “Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nel cielo” (Lc 6,23).
Riletta in questi termini la povertà, intesa da Gesù, costituisce un segno di benevolenza di Dio, più che di maledizione. La sua pratica favorisce l’atteggiamento spirituale con cui la persona si predispone alla relazione con Dio. Si capisce perciò la ragione per cui Matteo nel descrivere la stessa beatitudine, aggiunge: “Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3). Il povero “in spirito” è colui che non considera le proprie qualità spirituali, intellettive, morali, culturali e perfino la propria ricchezza materiale un motivo di vanto, di confronto e di disprezzo degli altri (cf. Lc 18,10-14), ma si pone a servizio della loro promozione personale e sociale. Da motivo di disprezzo morale e culturale la povertà viene elevata da Gesù a una forma manifestativa di Dio e del suo Messia. Paolo attesta di aver colto molto bene questo aspetto della vita di Gesù, quando dice che “Egli, da ricco che era, si è fatto povero per noi perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà” (cf. 2Cor 8,9). Ancora più profondo, invece, è il testo della lettera agli Efesini, dove invita i discepoli ad avere in loro gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale decide volontariamente di spogliarsi della sua divinità per assumere la condizione di servo, umiliando se stesso fino alla morte. Questa umiltà diventa condizione di glorificazione da parte di Dio (cf. Ef 2,5-11). Non da meno è il brano della prima lettera ai Corinti, dove afferma che “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto … debole … ignobile e disprezzato per confondere i sapienti e i forti” (cf. 1Cor 1,27-28). La vera forma di povertà è, allora quella di chi, come Gesù, si spoglia di tutto ciò che può costituire motivo di privilegio personale, per farsi uno con l’altro, fino al rinnegamento di sé. Questa povertà, a giudizio di Gesù, costituisce la via privilegiata per attuare il suo piano di umanizzazione e solidarizzazione con l’umanità. Al tempo stesso è la condizione che rende possibile al discepolo il processo di redenzione e divinizzazione.
Alla luce di questi rinnovati criteri interpretativi proviamo ora a fare un confronto tra l’ideale di povertà al quale si conforma Gesù, e la vita borghese alla quale ci conformiamo noi. E prendiamo atto della notevole distanza che passa tra la nostra e la prassi evangelica. Pur professandoci cristiani, viviamo una vita perfettamente conforme alla mentalità del mondo. Inseriti come siamo, poi, nel benessere materiale la povertà evangelica ci appare addirittura impossibile e utopistica. Da qui alcune domande: è ancora possibile vivere il Vangelo sine glossa? Cosa ci impedisce di aderire allo stile di vita di Gesù? Come mai facciamo tanta fatica a tradurre la povertà evangelica nel nostro vissuto culturale e sociale? [1] La pianificazione della nostra economia può essere ispirata dalla condivisione dei beni evangelica? Che forse la povertà vissuta da Gesù ci impedisce di vivere una vita dignitosa? Non è forse questa la condizione favorevole che permette a Dio di manifestare tutta la straordinaria ricchezza della sua provvidenza?
Si capisce allora che lo scandalo agli occhi di Gesù non è la ricchezza in sé, ma l’avidità mentale che ne alimenta l’accumulo esagerato, a discapito della qualità della vita spirituale personale e comunitaria. Questa forma di ricchezza è strettamente legata ad una prassi di vita radicata nello sfruttamento e nella strumentalizzazione degli altri. A livello sociale essa si manifesta quando un bene comune, viene usurpato per diventare oggetto di possesso di uno solo, o di un gruppo di persone, diventando, in questo modo, causa di conflitti sociali. La povertà non è la causa dei mali sociali, ma la conseguenza di una mentalità egoica, di chi non è mai pago dei suoi beni e usurpa quelli degli altri, per ingrandire i propri granai. Costui pur di conquistare un potere è disposto a scendere a qualsiasi compromesso con la verità e la giustizia. In altre parole la povertà sociale è la conseguenza di chi pensa di gestire la propria vita e quella degli altri, confidando solo in se stesso, nelle proprie ricchezze, nella propria intelligenza, nella propria ragione, conoscenza, abilità e strategie comunicative e organizzative, come si può notare nella denuncia che fa il profeta Geremia: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella sua carne il suo sostegno” (Ger 17,5), le sue consolazione (cf. Lc 6,24) e le garanzie del suo futuro (cf. Lc 12,16-21). Dello stesso avviso è anche l’autore del Salmo 1, quando dice che “i malvagi sono come pula che il vento disperde. Sul loro cammino il Signore non veglia, per questo la loro via va in rovina”. Senza dubbio costoro avranno dei benefici, ma non senza provocare scandali.
San Giacomo, nella sua lettera, fa un’osservazione interessante a questo riguardo: “Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male” (Gc 4,1-3). È chiaro che in questa prospettiva, finché cioè persiste l’ingordigia che la genera, non è possibile risolvere il problema della povertà materiale. Tante forme di povertà sociali non sono accidentali, come quelle provocate dalle calamità naturali, per intenderci, ma conseguenza di una mentalità “politica”, tesa a creare sacche di povertà intellettive e culturali, per tenere sotto controllo la società. Ed è proprio questa la forma più estrema e abietta di povertà; indice, molto spesso, di una ristrettezza mentale, culturale, politica e nel peggiore dei casi, di una miseria morale ed esistenziale. La povertà sociale è allora solo un sintomo di quella morale ed esistenziale che alberga nel cuore dell’uomo. La sua risoluzione, pertanto, non può essere solo di ordine politico ed economico, ma culturale e spirituale. Questo stile di vita richiede una vera e propria conversione mentale.
Riconsiderando tutti questi brani biblici viene da chiedersi se mai si giungerà alla soluzione definitiva della povertà nel mondo. Nel rispondere a questa domanda mi viene in mente la risposta di Gesù a quelli che nella casa di Simone il lebbroso, lamentavano lo spreco dell’olio profumato, compiuto dalla donna per ungere il suo capo: “I poveri li avrete sempre con voi” (Mc 14,7). Stando a questa affermazione sembra che la povertà sia destinata ad essere una costante nella realtà sociale. Forse questo è anche il motivo per cui Gesù considera la povertà non il risultato di una fatalità, ma un segno concreto della sua presenza in mezzo a noi, tanto da identificarsi con essi: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Anche nei confronti della fame, come nel caso della moltiplicazione dei pani, egli non mette a disposizione il suo potere divino, come s’aspettava la gente di allora e come ci aspetteremmo noi, oggi; e non propone neppure soluzioni di tipo giuridico, come prevede la giustizia distributiva (dare a ciascuno il proprio). La sua soluzione va, invece, nella direzione della condivisione o, più chiaramente, della comunione dei beni, che consiste nel mettere a disposizione di tutti ciò di cui si dispone, in vista di un patrimonio comune che consente a chiunque di goderne, ma anche di alimentarlo col proprio lavoro. Finché l’uomo continuerà a covare il male, la povertà sarà sempre presente (cf. Mc 14,7). Si tratta allora di intervenire nel cuore dell’uomo, ovvero in quel luogo, dove egli decide il tipo di relazione che intende stabilire con l’altro, con Dio e col creato: di antagonismo, di rivalità, di lotta, di concorrenza, oppure di concordia, di amicizia, di armonia, di amore. È a questo livello che ci si converte alla povertà evangelica. Essa costituisce perciò la condizione di chi vive la vita in uno stato di assoluta dipendenza da Dio e dalla sua provvidenza, ovvero chi confida in Dio e pone solo in lui la speranza della sua esistenza e della sua salvezza: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia” (Ger 17,7; Sal 1; 37/36; 112/111, 118/117).
La povertà evangelica, dunque, lungi dal ridursi a una situazione di indigenza materiale[2], costituisce la condizione spirituale più idonea per gustare, già nel presente, la straordinaria ricchezza della vita divina, autentica forma di benessere umano personale e sociale.

[1] Le varie mediazioni culturali e sociali che mettiamo in atto non sempre si rivelano risolutive, perché spesso siamo portati ad adattare il Vangelo alla nostra vita, anziché adattarci noi al Vangelo. Ne scaturiscono soluzioni che necessitano sempre di un rinnovato equilibrio.
[2] Malgrado i suoi limiti bisogna riconoscere che la società contemporanea rispetto al passato manifesta una nuova sensibilità nei confronti della povertà. Questa viene considerata uno scandalo per le disuguaglianze che genera, per questo motivo diversi governi si prodigano a intervenire in maniera esplicita e mirata.
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