16 Marzo 2025 - Anno C - II Domenica di Quaresima
- don luigi
- 15 mar
- Tempo di lettura: 7 min
Gen 15,5-12.17-18; Sal 26/27; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28-36
La Trasfigurazione:
preludio della Risurrezione

“In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme … venne una nube e li coprì con la sua ombra … E dalla nube uscì una voce, che diceva: Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!” (Lc 9,28-31.34-35).
“Fratelli, la nostra cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso … Perciò, fratelli miei carissimi … rimanete in questo modo saldi nel Signore …” (Fil 3,20-4,1).
Dopo l’episodio delle Tentazioni, la Liturgia della Parola ci presenta, oggi, un altro evento della vita di Gesù, altrettanto fondamentale: la Trasfigurazione. Tentazione e Trasfigurazione diventano così due tappe che contribuiscono a delineare ulteriormente il nostro itinerario quaresimale verso la Pasqua. Se il brano della Tentazione ci ha aiutato a individuare i criteri per verificare la consistenza della nostra fede e della nostra missione nel mondo; quello della Trasfigurazione, invece, ci lascia intravedere la pienezza e il compimento della nostra vita in Cristo.
Luca introduce il brano della Trasfigurazione con due importanti annotazioni che passano spesso inosservati ad un lettore disattento, ma che costituiscono la chiave di lettura dell’intera pericope. La prima di esse è: “Otto giorni dopo” (Lc 9,28). Una formula chiaramente pasquale con la quale Luca prefigura il giorno della manifestazione escatologica di Cristo. Biblicamente, infatti, l’“ottavo giorno” simboleggia il giorno senza tramonto (cf. Is 60,20), ovvero il tempo della nuova creazione, già in atto a partire dalla Risurrezione di Cristo. L’altra annotazione è: “Dopo questi discorsi”. Essa rinvia il lettore a rileggere quanto meno il capitolo 9 del Vangelo, entro cui viene collocato il nostro episodio. Rileggendolo notiamo che tra i discorsi che precedono l’evento della Trasfigurazione ci sono: la prima missione pubblica dei discepoli, la moltiplicazione dei pani, il primo annuncio della Passione e le condizioni per seguire Gesù. Mentre tra quelli che lo seguono troviamo: il secondo annuncio della passione e la sua salita verso Gerusalemme. Inserita all’interno di una simile cornice la Trasfigurazione assume una valenza simbolica. Essa non è un evento che evoca la realtà divina, ma è la manifestazione stessa della vita eterna di Dio nel presente. In altre parole quella realtà divina che Mosè intravide oltre il velo della realtà del creato, Gesù la rende realmente visibile. In lui è Dio stesso che si dà a vedere nell’oggi della storia.
Nel descrivere l’evento della Trasfigurazione tutti i Sinottici ci riferiscono della presenza di Mosè e di Elia, il quali conversavano tra loro sull’esodo che Gesù avrebbe portato a compimento a Gerusalemme (cf. Lc 9,31). La loro presenza contribuisce a rendere più esplicito il significato della Trasfigurazione, che evidentemente non si riduce solo a quello di una manifestazione teofanica, ma intende confermare la valenza divina della missione salvifica di Cristo, di cui Mosè ed Elia costituiscono due figure decisive ed emblematiche dell’Antico Testamento. Cristo viene presentato infatti come colui che ricapitola e realizza nella sua persona, non solo tutte le promesse fatte ad Abramo – alle quali fa riferimento la prima lettura tratta dal libro della Genesi (15,5-12.17-18) – e la Legge rivelata a Mosè, ma rinnova anche il modo stesso di manifestarsi di Dio, di cui Elia è simbolo. La voce del Padre che dice: “Questi è il Figlio mio, l’eletto, ascoltatelo” (Lc 9,35), riportata da Luca e dagli altri evangelisti, diventa così il segno che conferma questa visione divina. Con Gesù, Dio non irrompe più nel mondo dall’esterno, attraverso segni prodigiosi, come aveva fatto con Mosè (cf. Es 3,2), ma agisce dal di dentro del mondo, di cui la sua Trasfigurazione è indice del rinnovamento già in atto nel mondo. In questo senso la salita al cielo sul carro di fuoco con la quale Elia conclude la sua vita (cf. 2Re 2,1-18), anticipa l’Ascensione di Cristo e dice la meta escatologica alla quale il mondo è orientato.
Con la sua Trasfigurazione Gesù rivoluziona il concetto classico di “teofania”, ovvero di “manifestazione sensibile di Dio”. Non si parla infatti di un Dio che appare in forma umana, come prevedeva la religione greca, ma di un uomo che lascia intravedere l’originaria immagine divina dentro di sé. Il termine greco che noi traduciamo con “trasfigurazione” è meta-morfosi che letteralmente significa “oltre la forma”. In questo senso Gesù durante la Trasfigurazione non assume una forma diversa rispetto a quella umana, ma lascia emergere dalla stessa la realtà divina che lo costituisce. In altre parole la forma umana di Cristo è così raggiante da diventare trasparenza divina. Luca esprime tutto ciò in termini più realistici e concreti: “Mentre pregava il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante” (Lc 9,29). In altre parole, con Cristo, per la prima volta i discepoli possono vedere Dio “faccia a faccia”, senza più alcuna mediazione. Quella gloria che Mosè desiderò vedere direttamente, ma ottenne di vedere solo di spalle (Es 33,18.23), ora diviene visibile in Cristo. In lui, come dice san Paolo, “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9), perché è “irradiazione della sua gloria” (Eb 1,3a) e impronta della sua ipostasi (Eb 1,3b). La luce con la quale Cristo si fa vedere dai suoi discepoli è la stessa con cui il Padre si fa vedere da lui. Egli diventa così il volto stesso di Dio, tanto da poter dire: “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14, 9). Se nell’Antico Testamento la rivelazione di Dio era essenzialmente uditiva, con Cristo essa diventa anche visiva. Ciò che nessun occhio mai vide (1Cor 2,9), né Mosè (cf. Es 33,20), né Elia (cf. 1Re 19,13), ciò che “molti profeti e re hanno desiderato vedere e udire …” (cf. Lc 10, 21-24), ora i discepoli lo vedono e l’ascoltano.
Dinanzi a questa straordinaria visione ci sorprende il “sonno” di Pietro e dei suoi compagni (cf. Lc 9,32), lo stesso sonno che li coinvolgerà anche nell’orto degli ulivi, durante l’angosciante preghiera di Gesù (cf. Lc 22,45). È possibile dormire durante un simile evento? Si tratta chiaramente di un particolare realistico che Luca non esita a raccontare, col quale probabilmente intende evidenziare l’incapacità, la superficialità e la resistenza che si prova dinanzi alla manifestazione di Dio, nonché il tentativo di fuggire la responsabilità che essa comporta, come sembra attestare anche la dichiarazione di Pietro, il quale una volta sveglio, disse: “Maestro è bello per noi essere qui. Facciamo tre tende …” (Lc 9,33) e che Luca interpreta in chiave umoristica: “Egli non sapeva quello che diceva” (Lc 9,33). In ogni caso la sua affermazione ci dà modo di riflettere sul termine “tenda”, simbolo della presenza di Dio, come afferma anche Giovanni nel suo prologo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare (letteralmente si “attendò”) in mezzo a noi (cf. Gv 1,14). Tuttavia anche il termine “capanna” che nella nuova traduzione sostituisce quello di “tenda”, ha la sua importanza, in quanto richiama la “Festa delle capanne” con cui gli ebrei celebravano il ricordo della permanenza del popolo nel deserto durante l’esodo (cf. Dt 16,13-15). Comunque sia l’espressione Gesù costituisce la dimora definitiva di Dio. La sua è “una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo” (Eb 9,11).
C’è tuttavia un ultimo aspetto sul quale vorrei invitare a soffermare l’attenzione: il clima di preghiera all’interno del quale accade la Trasfigurazione. È interessante notare che per la terza volta, in questo tempo liturgico, la Chiesa ci ribadisce l’importanza della preghiera, come condizione per un autentico cammino quaresimale. La sua prassi ci è stata suggerita Mercoledì delle Ceneri, insieme alle pratiche religiose dell’elemosina e del digiuno; nella prima Domenica di Quaresima, dove ci è stata indicata come presupposto per vincere le tentazioni. Quest’oggi ci viene proposta come la condizione fondamentale per la Trasfigurazione: “Mentre pregava”, dice Luca, “il volto di Gesù cambiò d’aspetto”. La Trasfigurazione, allora, sembra costituire la conseguenza di un’intensa preghiera, nella quale Gesù appare totalmente impregnato di luce divina[1]. È nella preghiera che la nostra vita, come il volto di Gesù, “cambia d’aspetto” (Lc 9,29). È con la preghiera che riveliamo alle persone l’immagine di Cristo dentro di noi, in vista della quale siamo stati creati (cf. Col 1,16; Ef 3,9). Ed è sempre con la preghiera che contribuiamo a manifestare al mondo e al creato la gloria dei figli di Dio (cf. Rm 8,19-23).
La Trasfigurazione di Gesù diventa così un’anticipazione, nell’oggi della fede, della meta verso la quale la realtà tutta del creato è orientata. Una realtà che diventa concreta e visibile nella misura in cui noi cristiani, come Gesù, sapremo lasciarci trasfigurare dalla potenza dello Spirito, vera condizione capace di rinnovare il mondo dal di dentro. Si tratta di imparare – come dice San Paolo – a “camminare secondo lo Spirito”, ovvero ad aderire alla logica dell’amore di Cristo, così da conformare la propria vita a quella del suo stile evangelico (Gal 5,16.25). Si capisce così la sua esortazione che la Liturgia ci propone per la circostanza: “Fratelli, la nostra cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso … Perciò, (in attesa di questi eventi) fratelli miei carissimi … rimanete … saldi nel Signore …” (Fil 3,20-4,1).
[1] Gli stessi luoghi nei quali essa viene praticata da Gesù ci aiutano a capire anche la sua funzione: il deserto (cf. Lc 4,1) ci ricorda la sua necessità nei momenti di aridità spirituale; il monte (cf. Lc 9,28), invece, ci suggerisce lo sforzo ascetico, al quale essa ci sprona durante il cammino di conversione. Deserto e monte diventano così simboli di due condizioni fondamentali della preghiera, di cui una ci abitua a sostenere il peso della prova e a perseverare in essa, specie nelle tentazioni più insidiose e tenaci; l’altra a entrare nella dimensione della contemplazione, intesa come comunione d’amore di Dio, nella quale dimorare quotidianamente. Queste due forme di preghiera vanno necessariamente praticate se s’intende vivere la vita secondo lo Spirito. Il termine ascesi letteralmente significa “esercitare”. Si tratta di una pratica spirituale volta al conseguimento della perfezione dell’amore di Dio, conseguita mediante la rinuncia di sé, intesa e vissuta come condizione per conformare la propria volontà, la propria mente, il proprio cuore a quelli di Dio.
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