23 Marzo 2025 - Anno C - III Domenica di Quaresima
- don luigi
- 21 mar
- Tempo di lettura: 8 min
Es 3,1-8.13-15; Sal 102/103; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
L’urgenza della conversione

“Sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo! Perché deve sfruttare il terreno?” (Lc 13,7). È la conclusione alla quale giunge il vignaiolo nella parabola del fico sterile, dopo aver a lungo atteso invano la raccolta dei suoi frutti. Gesù formula questa parabola per sollecitare nei suoi ascoltatori l’urgenza della conversione alla vita del Regno da lui predicato (cf. Mc 1,15). L’occasione gli viene offerta durante una circostanza particolare che lo vede coinvolto in una discussione relativa alla capacità di leggere i segni dei tempi (cf. Lc 12,54-59), durante la quale gli viene chiesto di dirimere la questione sollevata da due fatti di cronaca che avevano sconvolto e diviso l’opinione pubblica di Gerusalemme, ritenuti come interventi punitivi di Dio a causa dei loro peccati[1]. Di questi fatti uno riguardava un gruppo di zeloti[2], provenienti dalla Galilea, che Pilato aveva fatto massacrare nel cortile del Tempio, perché ritenuti responsabili di una sommossa popolare contro il dominio romano, mescolando poi il loro sangue con quello dei sacrifici pagani. L’altro, riguardava invece diciotto operai che mentre lavoravano alla costruzione della torre di Siloe, morirono a causa del crollo improvviso dell’impalcatura sulla quale si trovavano (cf. Lc 13,1.4).
“Prendendo la parola Gesù rispose: Voi credete che quei Galilei, o quelle diciotto persone, fossero più peccatori di tutti i Galilei e gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (cf. Lc 13,2-5). Contrariamente all’opinione religiosa comune Gesù afferma che la morte giunge inaspettata e improvvisa e può toccare chiunque, indipendentemente dalla proprio condotta morale o religiosa. La questione dunque non è se essa sia o meno conseguenza di un peccato commesso, quanto piuttosto se al suo sopraggiungere ci si trova o meno nella condizione morale e spirituale giusta per essere salvati. In altre parole egli ribadisce che Dio “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (Ez 33,11). Dio non è punitivo o vendicativo, come certuni credono e affermano, al contrario, è attento al grido di dolore che sale dal suo popolo, come emerge già dal libro dell’Esodo: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido … conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele” (Es 3,7-8). Dio, dunque, è perennemente alla ricerca delle sue creature perdute (cf Lc 15, 1-7; 15, 8-10; 15, 11-32; Mt 12, 11-12) e offre continue possibilità di ritornare a lui, come afferma anche il profeta Gioele: “Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno, tardo all’ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura” (Gl 2,12-13). Ecco il vero volto di Dio che Gesù cerca di rivelare in ogni occasione. La morte accidentale e improvvisa di queste persone viene, perciò, interpretata da Gesù come una circostanza dalla quale lasciarsi interpellare per affrettare la conversione. La morte, è imprevedibile ed è sempre in agguato, pertanto se non si è vigilanti si corre il rischio di precludersi la possibilità di essere salvati. Da qui la necessità di ravvedersi in tempo debito dal peccato, per evitare di farlo quando non ci sono più le condizioni, come tra l’altro Gesù evidenzia anche nella parabola del Povero Lazzaro e del ricco epulone(cf. Lc 16,19-31).
Ma come cogliere la grazia di Dio? Così da riconoscerla quando sopraggiunge nella nostra vita. La risposta a questa domanda ci fa avvertire ancora più urgente la necessità del discernimento, che consiste nell’acquisire i criteri con cui riconoscere i segni dell’azione di Dio nella nostra vita[3]. Si tratta di avere una tale familiarità con Dio da capire subito che si tratta di una prova, anche quando le circostanze sembrano contraddirlo chiaramente. Non basta perciò assistere agli eventi, ma occorre anche la capacità di saperli interpretare, senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi culturali o religiosi del tempo, come dimostrano di avere quei Giudei che interpellano Gesù (cf. Lc 13,1). La morte, tranne nei casi di vecchiaia o di una prolungata malattia, può essere determinata dalla negligenza umana, come nel caso della torre di Siloe; dallo strapotere di un uomo politico, come nel caso di Pilato che aveva ordinato la repressione di quel gruppo di Galilei; oppure può essere la conseguenza di una calamità naturale, come nel caso di un’alluvione, di un terremoto … in tutti questi casi la morte ci appare in tutta la sua imprevedibilità, per cui nessuno può sapere quando e come sopraggiunge. Occorre perciò vigilare, per farsi trovare pronti.
Come evitare il rischio di ritrovarsi in circostanze in cui pur volendo non si è più nella condizione di essere salvati da Dio? Per rispondere a questa ulteriore domanda scopriamo la ragione per cui Luca colloca qui la parabola del fico sterile, con la quale Gesù chiarisce la necessità di realizzare la propria missione nella vita. Rileggendo la parabola viene da chiedersi: come mai Gesù parla dell’albero di fichi e non di un qualsiasi altro albero da frutto? A quale significato allude l’albero di fichi? La ragione per cui un contadino decide di piantare un albero di fichi in mezzo alla vigna è quella di deliziare con i suoi frutti gli operai durante il loro lavoro. Ma se il fico non svolge questa funzione non ha più motivo di essere coltivato. La sua presenza infatti può ingannare o deludere le attese di quanti cercano i suoi frutti. Allo stesso modo del fico anche il cristiano è chiamato a deliziare l’esistenza di coloro che invece sperimentano la durezza, la crudezza, la fatica della vita nel mondo. Il cristiano è chiamato ad essere un faro di luce e di certezza per chi si ritrova a brancolare nel buio dei propri dubbi esistenziali. Ma se il cristiano delude queste attese che gli altri nutrono nei suoi confronti, che motivo ha più la sua presenza nel mondo? E come potrebbe diventare un motivo di speranza, di fiducia, di gioia per gli altri, se egli stesso si mostra sterile, sciatto, pigro, negligente, disattento, distratto, superficiale, triste, scettico, pessimista a livello religioso? Chi mai potrebbe nutrire fiducia in lui o averlo come punto di riferimento della propria vita? In ultima analisi qual è il senso di un cristiano o di una religione che non suscita l’anelito alla vita divina tra gli uomini?
Ancora una volta dunque ne consegue la necessità di cominciare un cammino serio, autentico, onesto di conversione, senza limitarsi a quei formalismi tipici di una certa devozione religiosa che riduce tutto a pura esteriorità o ad abitudini moralmente scialbe, vuote, insignificanti; totalmente prive di una spiritualità robusta, salda, capace di incidere su se stessi, sugli altri e sulla realtà. Per questa conversione però non basta la buona volontà, senza impegnarsi a curare le giuste condizioni per svilupparla e portarla a compimento. La conversione, al pari di tutte le altre realtà, necessita di preghiera, pratica spirituale, attenzione, preparazione, allenamento, perseveranza, costanza, continuità. Essa non accade sulla base di una decisione estemporanea, ma necessita di maturazione, esattamente come emerge dal racconto dell’Esodo, dove il popolo impiegò la bellezza di 430 anni per maturare la decisione di svincolarsi dalla schiavitù egizia. E per raggiungere la libertà non bastò uscire dall’Egitto, ma dovette attraversare la prova del mare e soprattutto del deserto, nel quale il Signore impiegò altri 40 anni – purtroppo senza riuscirci – per liberarlo da tutti quei vincoli interiori che lo tenevano legato alla mentalità della vita precedente. Malgrado tutto essi continuarono a resistere ai suoi inviti tanto che “La maggior parte di loro non fu gradita a Dio, per cui marcì nel deserto” (cf. 1Cor 10,5), come ci ricorda san Paolo nella prima lettera ai Corinti.
Lo stesso discorso vale per chi tra di noi decide di intraprendere un simile cammino: da una parte deve imparare a conoscere le fasi di maturazione: umana, psicologica, spirituale, intellettiva, relazionale, ecclesiale senza le quali la conversione rischia di rimanere solo allo stato iniziale, magari nutrita da un desiderio struggente, ma che difficilmente trova un’adeguata incarnazione nel vissuto quotidiano; dall’altra deve evitare di cedere alla tentazione di dilazionarla nel tempo, pensando di avere sempre infinite possibilità di compierla. Una volta giunto a maturazione occorre perciò decidersi, senza più dubitare, tergiversare, per evitare di snaturare la propria vocazione. Nessuno conosce l’imprevedibilità della vita, ancor meno chi confida solo in se stesso (cf. Ger 17,5). Per Gesù la conversione non nasce da un dovere morale, ma da un’esigenza di libertà e soprattutto da un desiderio di comunione d’amore con Dio. Come non cogliere in questa sua ansia salvifica la ragione che motiva e anima il suo annuncio evangelico: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, pentitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Vale a dire: il tempo stringe e il kairós, ovvero l’occasione che Dio ci concede per la nostra conversione, potrebbe passare invano. Da qui l’urgenza della conversione. Si capisce allora ancora di più la sollecitazione paolina: “Vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso (cf. Is 49, 8). Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!” (2 Cor 6, 1-2).
Ma è probabile che per molti di noi questa conversione non necessita di una vera e propria svolta esistenziale e spirituale, e neppure morale, quanto piuttosto di un rinnovato impegno, teso a perfezionare la nostra condotta di vita evangelica. Forse abbiamo un po’ smarrito o contaminato la purezza della nostra decisione, lasciandoci condizionare da idee, forme di spiritualità o messaggi di salvezza diversi, più lusinghieri, immediati e a portata di mano. Per questo si tratta di riprendere un cammino interrotto. Si rivela, perciò, fondamentale riscoprire il volto del Dio di Gesù, della nostra tradizione ecclesiale e spirituale, lasciando riardere nel nostro cuore quel roveto dell’amore divino che un tempo ci ha fatto uscire da noi stessi e metterci a disposizione della Chiesa e della missione salvifica Cristo. In questo caso la Quaresima diventa l’occasione per rimettere a fuoco il senso della propria chiamata alla salvezza e rinnovare il nostro sì a Cristo.
[1] L’idea di considerare i fatti drammatici come punizione divina proviene da una mentalità religiosa molto diffusa e radica nel popolo ebraico, originariamente definita dottrina e poi teoria della retribuzione, secondo la quale Dio premia i buoni e castiga i cattivi. In realtà essa non faceva che distorcere la vera immagine di Dio e alterarne la volontà, da qui l’occasione che Gesù coglie per confutarla.
[2] Gli zeloti erano ebrei zelanti (da cui zeloti) della legge ebraica, caratterizzati da uno spirito religioso di marca chiaramente politico-sociale, il cui scopo era quello di rivendicare l’autonomia e libertà nei confronti del dominio romano.
[3] Leggere i segni alla luce di Dio significa scorgere nella storia e quindi nei fatti, negli avvenimenti, nelle vicende, nelle circostanze e perfino nelle situazioni morali più incresciose che la determinano, il misterioso disegno salvifico di Dio. Il che comporta la capacità di andare oltre le apparenze, oltre le contraddizioni che li caratterizzano e coglierle come un linguaggio comunicativo di Dio. Al di là di una esplicita rivelazione, egli non ha altro modo per comunicare la sua volontà se non quello di parlare attraverso le circostanze della vita. Il suo linguaggio tuttavia non è immediatamente comprensibile; lo diviene solo all’interno di una relazione interpersonale, con la quale il suo Spirito ci predispone a acquisire la sua grammatica. Ed è all’interno di questo orizzonte che i fatti, le vicende, gli eventi diventano per noi segni, attraverso i quali lo Spirito ci dischiude la sua volontà, il senso della vita e della storia. Perfino il suo silenzio – o per lo meno quello che noi percepiamo come una sordità, indifferenza, disinteresse, impassibilità – è in realtà parte del suo linguaggio, anzi condizione necessaria per educarci all’ascolto, alla comprensione della sua volontà.
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