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17 Marzo 2024 - Anno B - V Domenica di Quaresima


 

Ger 31,31-34; Sal 50/51; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33


La conversione della mente


“Signore, vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21). È la richiesta che alcuni Greci avanzano a Filippo e ad Andrea nel tentativo di incontrare il loro maestro, e alla quale Cristo dà una risposta apparentemente fuori luogo: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). In realtà questa risposta non fa che esplicitare le condizioni che Gesù rivolge a chiunque decide di mettersi alla sua sequela, indipendentemente dalla cultura di provenienza. La particolarità poi dei richiedenti ci offre l’occasione per affrontare un ulteriore aspetto della conversione: quella della mente. Anche la collocazione di questa richiesta nel contesto della Pasqua ebraica, come ci annota Giovanni all’inizio del brano (cf. Gv 12,20), contribuisce ad evidenziare le affinità col nostro cammino quaresimale, in preparazione alla festa pasquale.

Durante queste domeniche abbiamo più volte sottolineato come la conversione costituisca un processo fondamentale e ineludibile per un autentico cammino di fede. Essa non riguarda solo la dimensione morale e spirituale, ma anche quella intellettiva e culturale, tanto da ribadire, come afferma qualcuno, che senza un’adeguata struttura mentale non è possibile neppure fare un’esperienza di Dio. Ciò significa che per accedere alla realtà di Dio e risignificare la propria vita personale alla luce della sua volontà, non basta essere moralmente un po’ più buoni e disponibili, ma occorre acquisire la sua stessa mentalità; occorre cioè imparare a “pensare come lui”. Gesù ribadisce costantemente questa esigenza, come quando afferma la necessità di porre il “vino nuovo” del suo annuncio salvifico, negli “otri nuovi” della nostra mentalità (cf. Lc 5,37-38). Pertanto se s’intende imparare a pensare come Cristo è necessario rinnovare la propria struttura mentale. A questo proposito sembra particolarmente significativa un’affermazione di A. Einstein, il quale dice che “Non è possibile pensare di risolvere un problema con la stessa mentalità che lo ha creato”. In altre parole, non è possibile mettersi alla sequela di Cristo e continuare ad avere la stessa mentalità del mondo.

            Consapevoli di questa necessaria condizione mentale che deve accompagnare, costantemente, il nostro itinerario di conversione durante la vita, cerchiamo ora di introdurci nel nostro brano evangelico. Suggerisco di leggerlo in continuità con quello di domenica scorsa e in particolare con la richiesta che Gesù premette a Nicodemo: “Se uno non nasce dall’alto non può vedere il regno di Dio” (Gv 3,3). Avrete già notato l’uso dello stesso verbo impiegato dai Greci nella loro richiesta: “Vogliamo vedere Gesù”, in risposta ai quali Gesù pone le stesse condizioni che a Nicodemo: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore, produce molto frutto”. In entrambe le risposte Gesù non fa che esplicitare la stessa logica pasquale, sebbene ne parli in modo diverso: qui con la metafora del “chicco di grano”, lì con quella del “serpente innalzato sull’asta”. In ogni caso “vedere Gesù” o “vedere il regno di Dio” non è un’operazione semplicemente visiva, ma comporta la capacità di cogliere i segni della presenza operante di Dio in Gesù e nel mondo. Questo ci fa capire la necessità di educare il nostro sguardo, conformandolo a quello di Cristo. “Rinascere dall’alto”, dunque, è lo stesso che “morire come il chicco di grano”. In entrambi i casi si tratta di “rinnegare” a se stessi. Non è un caso allora che Gesù accompagni la sua risposta ai Greci con la seguente affermazione: “Chia ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo” (Gv 12,25-26). Rinnegare se stessi o morire a se stessi non significa annientare la propria personalità, come certuni credono, ma è la condizione per rinascere in Cristo. Questa operazione costituisce la “legge della conversione”, caratterizzata dal dinamismo di una progressiva “morte e risurrezione”, finché Cristo non abita in noi, come ci attesta anche san Paolo nella lettera ai Galati, quando descrive gli effetti che questo nuovo modo di pensare ha comportato nella sua vita personale. Egli parla infatti di una radicale trasfigurazione del proprio io a favore di quello di Cristo in lui: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (cf. Gal 2,19). Pensare come Cristo, dunque, lungi da limitare la nostra libertà esprime invece la pienezza della nostra personalità e della nostra identità. 

Pensare come lui significa, tuttavia, aderire alla sua logica pasquale, quella che lui esplicita ai discepoli, ripetutamente, durante il suo viaggio verso Gerusalemme, con gli annunci della passione (cf. Mc 8,31; 9,31; 10,33); e rimprovera Pietro per la sua mancata acquisizione, sebbene questi lo avesse riconosciuto come il Cristo di Dio: “Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33). Anche noi, come Pietro, fatichiamo non poco ad acquisire e, ancora più, ad adeguarci a questa mentalità, perché preferiamo continuare a pensare come gli uomini, più che come Dio, illudendoci di trovare un felice e astuto compromesso, per la nostra salvezza. In realtà ogni attaccamento al proprio modo di pensare, di ragionare, di vedere, di capire; ogni affezione morbosa alle proprie idee, alla propria mentalità culturale e religiosa, costituisce una forma d’amore verso il proprio io, e ciò ci espone al rischio di precluderci la “vita eterna”. Pertanto quell’amore egoico che riteniamo necessario esercitare nei nostri confronti per difenderci dalla paura dell’altro, finisce col diventare la causa del nostro smarrimento esistenziale.

Questa operazione, per quanto dolorosa, è necessaria per la nostra conversione, in tutte le sue diverse declinazioni: morale, spirituale, religiosa, ma in modo particolare per quella intellettiva. Quest’ultima infatti è la più delicata, poiché coinvolge il nostro modo di pensare, di creare, di immaginare, di capire, di intuire, di conoscere, di ragionare, di operare, insomma tutto quel processo mentale che mettiamo in atto quando dobbiamo tradurre nel vissuto quotidiano l’amore evangelico. Una simile conversione, quando non viene compiuta in modo autentico, rischia di sfociare nel fanatismo religioso. Diversamente quando accade nella libertà, allora genera quella straordinaria sensazione di pienezza di vita e di gioia, di cui parla Gesù: “Se rimanete fedeli alla mia parola … conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32); “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).

Quando ciò accade allora l’amore evangelico viene esteso naturalmente a tutti gli ambiti della nostra vita personale, ecclesiale e sociale come: il lavoro, lo studio, la politica, la pastorale, la liturgia, la giustizia, l’economia, lo sport, l’arte ... Ogni ambito e dimensione della vita può essere trasfigurato dall’amore evangelico. Ecco lo specifico della conversione intellettiva, alla quale è chiamato chiunque opera a livello culturale, ovvero chiunque si procura di estendere l’amore evangelico ad ogni settore della vita umana. Si tratta allora di una conversione integrale, ed essa riguarda tutti i cristiani, indipendentemente dal proprio grado culturale e intellettivo. Tutti sono chiamati a rinnovare il proprio modo di pensare.

La richiesta avanzata dai Greci e la risposta di Gesù, si rivelano, allora, di fondamentale importanza per l’attuale contesto religioso, profondamente caratterizzato da un crocevia culturale di popoli, come quello che convergeva nel cortile dei Gentili, in occasione della Pasqua ebraica. Esse sembrano offrirci non solo una chiave di lettura per interpretare la crisi di fede che vede convolto tutto l’occidente cristiano, ma anche dei segnali di speranza per una rinnovata conversione a Cristo, nel nostro pluralismo religioso e culturale. Tutto ciò implica, però, da parte nostra, il coraggio di una onesta e radicale rivisitazione della propria mentalità culturale, come quello manifestato dai Greci, riconosciuto come condizione imprescindibile per la loro conversione. D’altra parte la richiesta di Gesù comporta l’umiltà di morire, come il “chicco di grano”, alla propria tradizione culturale e, nel nostro caso specifico cristiano, anche a quella religiosa, sebbene sia caratterizzata da un passato glorioso. Diversamente se rimaniamo attaccati morbosamente ad essa, corriamo il rischio previsto da Gesù: “se il chicco di grano non muore, rimane solo” (Gv 12,24); rimane, cioè, chiuso in quel isolamento che scaturisce dalla paura di lasciarsi modellare dalle circostanze storiche e dolorose della vita; quell’isolamento, magari rassicurante e protettivo, ma asfissiante e sterile, sotto il profilo creativo. “Se invece muore, produce molto frutto”, inaugurando così l’era o come preferisce Gesù, “l’ora” della “glorificazione di Dio”, ovvero il tempo in cui le persone, come ribadisce il profeta Geremia, “non dovranno più istruirsi gli uni gli altri per conoscere Dio, poiché tutti lo conosceranno, dal più piccolo al più grande” (cf. Ger 31,34) “come il proprio Dio e ciascuno si riconoscerà come parte integrante del suo popolo” (cf. Ger 31,33).

 

 

 

 

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