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19 Gennaio 2025 - Anno C - II Domenica del Tempo Ordinario


 

Is 62,1-5; Sal 95; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-11

 


Non hanno più fede


Paolo Veronese, Nozze di Cana (1563), Museo del Louvre, Parigi
Paolo Veronese, Nozze di Cana (1563), Museo del Louvre, Parigi

“Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: Non hanno più vino. E Gesù le rispose: Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora. Sua madre disse ai servitori: Qualsiasi cosa vi dica, fatela … E Gesù disse loro: Riempite d’acqua le anfore; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto. Ed essi gliene portarono” (Gv 2,1-8).

L’idea di collocare l’episodio delle Nozze di Cana nella liturgia della seconda Domenica del Tempo Ordinario, lascia trapelare un’interpretazione teologica di estremo rilievo: da una parte, essa ci consente di intuire un ulteriore sviluppo del piano rivelativo di Dio, dall’altra, di capire il modo di come tradurlo nel vissuto quotidiano, visto che insieme al Battesimo, costituisce l’episodio inaugurale della predicazione pubblica di Gesù. Se con l’episodio del Battesimo la Chiesa ci indica la condizione per accedere alla comunione di vita con Dio, con quello di Cana ci ribadisce esplicitamente il desiderio di Dio di condividere, anzi, di sposare la nostra causa, manifestando in questo modo la sua piena adesione alla nostra natura umana. Nell’uno e nell’altro caso gli episodi alludono a una trasformazione e più precisamente al passaggio da una vita governata dalla legge della natura a una vita condotta secondo la logica dello Spirito, i cui carismi sono all’origine della vita ecclesiale, come afferma Paolo nell’odierno brano della prima lettera ai Corinti (1Cor 12,4-11). Pertanto porsi alla sequela di Gesù significa prendere coscienza di questi presupposti teologici e spirituali e fare una scelta di vita. Ancora più ora che ci troviamo all’inizio del Tempo Ordinario, il cui scopo è quello di mettere mano concretamente all’opera di conversione della nostra vita.  

Che i due episodi siano intimamente collegati tra loro lo attesta anche la citazione dell’antico proverbio del levirato: “Io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci ai suoi sandali” (Lc 3,16), col quale il Battista riconosce Gesù come il vero “Sposo” designato a intessere il matrimonio tra Dio e Israele, come attesta anche tutta la tradizione veterotestamentaria a partire da Osea fino al Cantico dei cantici[1], e tra Cristo e la sua Chiesa, come evidenzia la tradizione neotestamentaria a partire da quella evangelica[2] fino a quella paolina[3]. Cristo è colui che dà inizio alla discendenza spirituale dei figli di Dio. Si capisce dunque l’interpretazione simbolica che l’evangelista Giovanni conferisce all’episodio delle Nozze di Cana, il cui significato richiama immediatamente la profezia nuziale di Isaia: “Sì, come un giovane sposa una vergine, / così ti sposerà il tuo creatore; / come gioisce lo sposo per la sposa, / così il tuo Dio gioirà per te” (Is 62,5).

Rileggendo l’episodio di Cana alla luce dell’attuale crisi religiosa che attraversa la cultura occidentale e quella di fede che attraversa la vita ecclesiale, credo che non ci sia espressione più eloquente di quella pronunciata da Maria: “Non hanno più vino”, per descrivere l’assenza di Dio e della fede in lui, dalle nostre relazioni umane. L’osservazione mariana diventa perciò emblematica per comprendere anche la drammatica realtà in cui verte l’attuale crisi matrimoniale. Con questa sua affermazione Maria non fa che rivelarsi un’attenta osservatrice della realtà spirituale, indicandoci, in questo modo, la terapia da assumere per superare l’attuale crisi. Malgrado l’inattesa e sconcertante reazione di Gesù: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora”, lei, imperterrita, come solo una madre che conosce profondamente il figlio può fare, disse ai servitori: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”.

            Proviamo ora a commentare questo atteggiamento di Maria. È interessante notare che tra tutti gli invitati al matrimonio, lei fu l’unica ad accorgersi che era venuto a mancare il vino. Neppure il “direttore del banchetto”, oggi diremmo maître di sala, si mostrò così attento. E lei cosa fa? Senza smarrirsi o perdersi d’animo, va immediatamente da Gesù a presentargli la situazione, invitandolo, anzi, inducendolo teneramente, ad intervenire. È bello rilevare questa determinazione di Maria. Per noi che siamo abituata ad immaginarla sempre “umile, silenziosa e obbediente”, vederla prendere decisioni in modo così risoluto, ci sorprende.

Gesù sembra reagire, almeno inizialmente, a questa sua intraprendenza, con un’affermazione che francamente ci sconcerta, rivolgendosi a lei con l’appellativo di “donna” [4], anziché “madre”, come ci saremmo aspettati. Ma poi intuisce che dietro quella insistenza materna si cela la volontà di Dio. Pertanto quell’atteggiamento così apparentemente ardito della madre, si stava dispiegando ai suoi occhi come il segno che lui attendeva, per dare inizio alla sua manifestazione pubblica. E la madre, malgrado tutto, stava diventando, a sua insaputa, una sorprendente mediatrice della volontà di Dio. La dote di spiccata sensibilità fece di Maria una donna particolarmente attenta al buon esito della festa. Abituata com’era, infatti, a cogliere la dinamica della misteriosa azione di Dio nella sua vita e in quella degli altri, non tardò a interpretare quella situazione imbarazzante come una circostanza favorevole per la manifestazione messianica del figlio, della cui “ora” era certamente al corrente. Maria si rivela così un’autentica esegeta del piano rivelativo di Dio, da qui la decisione di Gesù di riconoscerne l’autorevolezza. Egli infatti non esita a eseguire le disposizioni della madre. In altre parole Maria con la sua intraprendenza sembra anticipare l’ora della manifestazione pubblica di Gesù. Farsi interprete della volontà di Dio in simili circostanze è solo di chi dispone di una conoscenza intima e familiare del suo piano sapienziale. Mi piace immaginare tutte quelle figure che come Maria, si rivelano attente a evitare che il vino della fede non venga a mancare o peggio ancora che non si trasformi in acqua, a cui purtroppo molto spesso assistiamo, oggi, nella vita ecclesiale e matrimoniale.

Ad ogni modo l’atteggiamento di Maria ci provoca alcuni interrogativi, del tipo: cosa ci suggerisce la sua particolare audacia nell’attuale crisi di vita ecclesiale? Da cosa scaturisce la sua attenta interpretazione sapienziale della realtà? A cosa allude la mancanza del vino che lei rileva? Perché Maria non si rivolge al maestro di tavola? A chi possiamo paragonare costui quando ci ritroviamo a intessere la nostra relazione intima con Dio nelle assemblee liturgiche ed eucaristiche? Si intuisce allora che Giovanni nel raccontare questo episodio non era intenzionato a trasmetterci solo una festa di matrimonio, ma a veicolarci un significato che va oltre la cronaca quotidiana e che noi possiamo cogliere focalizzando ora l’attenzione sulla figura di Gesù.

Si tratta di un significato teologico profondo che si dischiude alla nostra intelligenza leggendo in modo continuato quei brani che l’evangelista Giovanni presenta tra i segni[5] rivelativi della messianicità di Cristo. Essi sono il segno di Cana, la Cacciata dal Tempio, l’episodio di Nicodemo e della Samaritana. Tutti questi episodi hanno a che fare col cambiamento della vita spirituale che Gesù inaugura con la sua predicazione. In essi si nota, infatti, la coscienza che egli aveva di farla finita con una prassi religiosa basata esclusivamente su riti e sacrifici. In questo senso le Nozze di Canacostituiscono l’inizio di questo evento rivelativo, come suggerisce l’espressione di Giovanni: “Cosi Gesù diede inizio … alla manifestazione della sua gloria” (Gv 2,11). Il termine che noi traduciamo con “inizio” è archèn, che in greco significa: “principio”, “origine”, “inizio”. È lo stesso termine che noi troviamo all’inizio del Prologo: “In principio era il Verbo” (Gv 1,1) e anche all’inizio del libro della Genesi: “In principio Dio creò …” (Gen 1,1). A questo significato contribuisce anche la formula: “Tre giorni dopo”, con la quale l’evangelista introduce il nostro episodio. I “tre giorni” non vanno intesi in senso cronologico, ma in quello kairologico, ovvero al giorno della risurrezione. In altre parole, per Giovanni, il prodigio di Canasegna l’inizio della nuova alleanza. In questo senso l’espressione con la quale Maria si rivolge a suo Figlio “Non hanno più vino” è un modo per dire la mancanza di fede o della vita divina che era venuta meno nel sistema religioso mosaico, tutto fondato sull’osservanza di precetti morali e norme giuridiche che avevano praticamente anestetizzato lo Spirito di Dio. Trasformando l’acqua in vino Gesù non fa che trasformare l’amore umano in amore divino. Ecco la vita nuova che egli inaugura con la prassi battesimale in “Spirito Santo e fuoco”.

Rilevante per la nostra conversione è anche lo stile autorevole adottato da Gesù in questo episodio: egli opera un prodigio senza enfasi. Il primo segno pubblico di Gesù avviene nella più assoluta discrezione. Nessun gesto che attiri l’attenzione degli astanti su di sé. Agisce nel nascondimento, com’è tipico dello Spirito. Le uniche parole sono: “Riempite d’acqua le giare ... Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto”. Tutto qui. Anche al termine del prodigio non c’è nessuno che lo acclami, come avviene in altre circostanze. Nessuno s’era accorto di quello ch’era avvenuto. Esattamente come nessuno s’era accorto del vino ch’era venuto a mancare, ora nessuno sa da dove provenga quello nuovo e abbondante presente nelle anfore. Neppure lo sposo che dovette certamente provvedere alle scorte alimentari. E anche in questa circostanza il direttore del banchetto si rivela poco attento. Eppure il suo ruolo non è affatto secondario. Egli è un po’ come quei dirigenti distratti a cui sfugge di mano la situazione ma non sa come raddrizzarla. Essa va degenerando ma è sempre dell’avviso che le cose vadano bene. L’unico a darci l’idea di quello che era avvenuto è il narratore, che però si limita a dire che “l’acqua era diventata vino”, nel momento in cui viene prelevata dai servitori ed offerta al direttore del banchetto.

Al pari dello stile è la metodologia spirituale adottata da Gesù. Egli non spazza via l’Antica Alleanza, non distrugge la legge, ma la trasforma dal di dentro, anzi è la stessa religione che viene radicalmente trasfigurata, cambiata secondo la metodologia tipica dello Spirito: “ecco io faccio nuove tutte le cose”. A questo proposito, l’idea di far riempire d’acqua le anfore e poi trasformarla in vino è estremamente significativa. Incarnandosi egli non abolisce la natura umana, ma la porta a compimento (cf. Mt 5,17-20). La vita nuova alla quale egli dà inizio con la risurrezione non è qualcosa di totalmente altro dalla vita umana, ma è la stessa radicalmente trasfigurata dallo Spirito[6]. Lo stesso discorso vale per l’amore umano e coniugale: egli lo trasforma da possessivo in oblativo. In altre parole, facendosi uomo egli non si sostituisce all’uomo, né include la natura umana in quella divina, ma la assume trasformandola dall’interno, dando così origine alla divinoumanità. La novità sta nell’unire in modo inscindibile le due nature: quella divina e quella umana. Con questo miracolo Gesù sembra tracciare perciò il profilo di quella che potremmo definire la spiritualità della divinoumanità, che tanto i coniugi quanto i membri della Chiesa sono chiamati a intessere nelle loro relazioni quotidiane. In questo senso i carismi di cui parla Paolo nella lettera ai Corinti 12,4-11, altro non sono che la vita dello Spirito che anima la comunione ecclesiale. Tutti, pur nella diversità dei carismi che lo Spirito concede loro, sono chiamati a concorrere al “bene comune” (1Cor 12,7), ovvero alla realizzazione della vita ecclesiale.

 


[1] Cf. Os 1-3; Is 54.62; Ger 2-3; Ez 16.23; Mal 2,13-17; Rut, Tobia, Cantico dei Cantici.

[2] Cf. Mt 22,1-14; 25,1-13; Lc 14,16-24.

[3] Cf. Ef 5,21-33; 2Cor 11,2.

[4] Nella tradizione esegetica della Chiesa numerose sono state le interpretazioni che sono state date in merito a questa affermazione di Gesù. Tra le tante la più plausibile sembra essere quella che rimanda all’ora della crocifissione in cui Gesù le ripete: “Donna, ecco tuo figlio” (Gv 19,26), e quella che rimanda anche alla creazione della donna nel libro della Genesi 3,20. Questa associazione tra Maria ed Eva consente di interpretare il passo come la Donna da cui hanno origine tutti i viventi. 

[5] La tradizione esegetica riconosce abitualmente la presenza di sette segni che caratterizzano l’attività miracolosa di Gesù, tra questi distingue quello di: Cana (Gv 2,1-11); della guarigione del figlio del funzionario del re (Gv 4, 46-54); della Guarigione alla piscina di Betzatà (Gv 5, 1-16); de La moltiplicazione dei pani e dei pesci (Gv 6, 1-15); della Guarigione del cieco alla piscina di Sìloe(Gv 9, 1-41); de La risurrezione di Lazzaro (Gv 11, 1-44); della Pesca miracolosa (Gv 21,1-14). Nel linguaggio giovanneo la parola “segno” che lui usa per indicare il miracolo, ha uno scopo principalmente provocatorio, teso, cioè, a suscitare delle domande di senso sul suo operato, così che chi l’osserva è mosso a interrogarsi sull’origine, sulla ragione e sulla natura dei suoi segni, al fine di pervenire alla conoscenza della sua identità divina. In questa prospettiva vanno letti anche gli episodi della Cacciata dal Tempio (Gv 2,13-22), di Nicodemo (Gv 3,1-21), della Samaritana (Gv 4,1-42).

[6] Questa trasformazione è all’origine anche della vita ecclesiale e della vita coniugale. L’amore coniugale diventa così l’immagine dell’amore sponsale di Cristo con la sua Chiesa. Pertanto come nella vita matrimoniale l’amore fisico è chiamato a trasformarsi in quello divino, così nella Chiesa le relazioni umane sono chiamate ad essere trasformate in quelle spirituali, grazie alle quali diventa possibile realizzare la vita filiale di Cristo. In questa luce si capisce che l’unità alla quale sono chiamati i coniugi è la stessa a cui sono chiamati anche i membri della Chiesa. Lo Spirito che fa dei due una sola carne è lo stesso che fa dei membri della Chiesa un solo corpo (cf. Rm 12,4-8).

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