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2 Marzo 2025 - Anno C - VIII Domenica del Tempo Ordinario


 

Sir 27,4-7 (NV - gr. 27,4-7); Sal 91; 1Cor 15, 54-58; Lc 6, 39-45

 



Il primato della misericordia



“Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro … L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che sovrabbonda nel cuore” (Lc 6,40.45).

Il brano evangelico dal quale abbiamo tratto questi versetti viene collocato da Luca all’interno del discorso sulle beatitudini. In realtà, a giudicare dalla struttura narrativa, più che un discorso si tratta di una raccolta di detti, con molta probabilità pronunciati da Gesù in circostanze e tempi diversi, e poi riuniti qui, senza neppure un collegamento logico e sistematico. Da qui il carattere frammentario che ne deriva, nel quale è possibile ravvisare lo stesso stile letterario dei detti sapienziali del Siracide, come emerge dal brano propostoci dalla Liturgia.

Tuttavia, nonostante questo limite, l’operazione lucana si rivela comunque positiva. I detti infatti sembrano essere raccolti intorno ad alcune unità tematiche che garantiscono una certa continuità. Tra le varie esposte noi prenderemo in considerazione quelle relative al rapporto tra il discepolo e il maestro e i discepoli tra loro; se non altro perché esse contribuiscono a chiarire ulteriormente non solo il senso delle beatitudini, ma a delineare anche il profilo e i compiti del discepolo. Costui, stando a Gesù: “non è più del maestro”, anche se quando è “ben preparato diventerà come il suo maestro” (Lc 6,40). Il suo compito prioritario consiste nell’assimilare i suoi insegnamenti. Egli, a differenza dei discepoli dei rabbini, non dovrà limitarsi ad osservare formalmente la legge, ma a verificare se quella che scaturisce dalle beatitudini venga assimilata e incisa profondamente nel suo cuore – poiché a giudizio di Gesù – è qui che il discepolo decide e promuove le sue intenzioni, buone o cattive che siano. È dal cuore che “l’uomo buono trae fuori il bene”, allo stesso modo con cui “l’uomo cattivo trae fuori il male” (cf. Lc 6,45). Il cuore costituisce il centro decisionale dell’uomo. E non c’è altro modo per esternare queste decisioni se non quello della parola e dell’azione. Pertanto, un uomo puro, genuino, autentico, onesto, retto trae parole buone dal suo cuore; diversamente, un uomo impuro, disonesto, immorale, corrotto trae parole e cattive, poiché “la bocca parla dalla pienezza del cuore”. “La parola – infatti, come afferma il libro del Siracide – rivela il sentimento dell’uomo” (Sir 27,6). Parafrasando il detto evangelico, potremmo dire che: “ogni uomo lo si riconosce dalle sue parole” (cf. Lc 6,44). Infatti “la prova dell’uomo si ha nella sua conversazione” (Sir 27,5). È ascoltando le sue riflessioni che appare chiaramente la sua intenzione e la sua identità. È da saggio valutare un uomo solo dopo averlo sentito parlare e averlo visto operare, poiché è qui il suo banco di prova (cf. Sir 27,7), esattamente come la fornace lo è per la ceramica del vasaio (cf. Sir 27,4). Pertanto, per verificare la sua autenticità non basta riscontrare la fedeltà alla legge, ma osservare se essa è espressione di un cuore puro o doppio. Detto in altri termini: fammi vedere come parli e come operi e ti dirò chi sei.

Tra le varie pratiche in cui il discepolo deve specializzarsi vi è anche quella della correzione fraterna, alla quale si riferisce Gesù col seguente detto: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (Lc 6,41-42). Si tratta di una pratica spirituale antichissima, che Gesù raccomanda molto ai suoi discepoli. Essa è tesa non solo al recupero morale della persona, ma anche al suo progresso spirituale. Per questa ragione essa necessita di esperienza, tatto, delicatezza e finezza spirituale, ma anche di fermezza, specie quando occorre intervenire nei casi più complessi, come quello descritto da Gesù in questo passo, ovvero nei confronti di persone dal giudizio facile e superficiale; oppure verso quelle dal carattere litigioso, ostile, sospettoso, conflittuale, diffidente, permaloso e animate da sentimenti di invidia, rancore, rivalità, gelosia, astio. È già difficile praticarla verso gli amici, lo diventa ancora di più verso coloro che nutrono relazioni viziate da pregiudizi e retaggi culturali. Perciò è utile ricordare che non tutti possono correggere tutti.

A quali condizioni è possibile esercitare una simile pratica spirituale? Il criterio che più di ogni altro deve animare chi si accinge a correggere un fratello è quello stabilito dallo stesso Gesù e del quale abbiamo già parlato domenica scorsa: “Siate misericordiosi com’è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli” (Lc 6,36). L’apostolo Paolo tratta di questo argomento in alcune sue lettere, come quella ai Galati, dove dice: “Qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza” (Gal 6,1); mentre nella seconda lettera ai Tessalonicesi ribadisce: “Se qualcuno non obbedisce, prendete nota di lui … tuttavia non trattatelo come un nemico ma ammonitelo come un fratello” (2Ts 3,14-15). In entrambi i casi emerge che la correzione fraterna prima ancora di essere un atto penale e un intervento educativo, e come tale va esercitato con carità evangelica, che lui traduce in termini di “dolcezza”; perciò più che al giudizio e alla condanna la correzione è tesa alla promozione dell’altro (cf. Ez 33,11; Lc 15,7). La carità, dunque, costituisce l’atteggiamento fondamentale che deve caratterizzare coloro che sono preposti per un simile compito nella comunità ecclesiale e ancora di più in quella sociale. Solo chi dispone di una maturità umana e spirituale è in grado di far convergere tutto al bene. Diversamente chi è nutrito da un rigido legalismo giuridico trasforma la correzione in un’occasione di giudizio e di condanna. Per questa ragione è opportuno che costoro facciano memoria del discorso di Gesù sulla misericordia. Questa pratica presuppone infatti che i discepoli intessano tra loro le stesse relazioni che Gesù condivide col Padre nello Spirito. È all’interno di questo orizzonte d’amore che la correzione viene differentemente esercitata e accolta. Diversamente rischia di erigere solo muri di difesa. In questo senso la comunità ecclesiale ha la responsabilità di creare i presupposti affinché questa pratica risulti salutare, per il bene spirituale dei singoli come della stessa comunità. Essi, perciò, ancora prima di eccellere nella scienza, nella politica, nello sport, nelle arti, nella cultura …, devono primeggiare nella pratica della misericordia. Tutti questi ambiti umani e sociali altro non sono che luoghi dove manifestare e declinare la misericordia di Dio. Ogni cosa essi devono impregnare del suo amore misericordioso. È qui lo specifico segno distintivo delle loro relazioni interpersonali, ecclesiali e sociali. La misericordia si manifesta nella benevolenza, nella clemenza, nella comprensione che essi dovranno avere verso tutti. La regola d’oro da adottare in queste circostanze, rimane quella evangelica di Gesù: correggi gli altri come vorresti essere corretto tu (cf. Lc 6,31), poiché la misericordia con cui correggi sarai corretto (cf. Lc 6,38).

Riepilogando, l’amore è l’unica condizione relazionale che consente di accogliere, valutare, correggere e giudicare l’altro nella sua integrità e pienezza. Esso costituisce il vero recinto ecclesiale all’interno del quale è possibile sperimentare la salvezza di Cristo. In questo senso potremmo riformulare l’antico adagio ecclesiologico – che ha creato non pochi equivoci nel corso della storia – nella seguente espressione: Extra agàpe nulla salus, fuori dell’amore non c’è salvezza.

 

 

 

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