top of page

20 Marzo 2022 - Anno C - III Domenica di Quaresima


 
 

Es 3,1-8.13-15; Sal 102/103; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9


L’urgenza della conversione



“Sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo! Perché deve sfruttare il terreno?” (Lc 13,7). È la conclusione alla quale giunge il vignaiolo nella parabola del fico sterile, dopo aver a lungo atteso invano la raccolta dei suoi frutti. Gesù formula questa parabola per sollecitare nei suoi ascoltatori l’urgenza della conversione. L’occasione gli viene offerta durante una circostanza particolare che lo vede coinvolto in una discussione relativa alla capacità di leggere i segni dei tempi (cf. Lc 12,54-59), durante la quale gli viene chiesto di dirimere su due fatti di cronaca che avevano sconvolto e diviso l’opinione pubblica di Gerusalemme, ritenuti come interventi punitivi di Dio a causa dei loro peccati[1]. Di questi fatti uno riguardava un gruppo di zeloti[2], provenienti dalla Galilea, che Pilato aveva fatto massacrare nel cortile del tempio, perché ritenuti responsabili di una sommossa popolare contro il dominio romano, mescolando poi il loro sangue con quello dei sacrifici pagani; l’altro riguardava invece diciotto operai che mentre lavoravano alla costruzione della torre di Siloe, morirono a causa del crollo improvviso dell’impalcatura sulla quale si trovavano (cf. Lc 13,1.4).

“Prendendo la parola Gesù rispose: Voi credete che quei Galilei, o quelle diciotto persone, fossero più peccatori di tutti i Galilei e gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (cf. Lc 13,2-5). Contrariamente all’opinione religiosa comune Gesù afferma che la morte giunge inaspettata e improvvisa e può toccare chiunque, indipendentemente dalla proprio condotta morale. La questione dunque non è se essa sia o meno conseguenza di un peccato commesso, quanto piuttosto se al suo sopraggiungere ci si trova o meno nella condizione morale di essere salvati. In altre parole egli ribadisce che Dio “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (Ez 33,11). Dio non è punitivo o vendicativo, come certuni credono e affermano, al contrario è attento al grido di dolore che sale dal suo popolo, come emerge già dal libro dell’Esodo: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido … conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele” (Es 3,7-8). Dio, dunque, è perennemente alla ricerca delle sue creature perdute (cf Lc 15, 1-7; 15, 8-10; 15, 11-32; Mt 12, 11-12) e offre continue possibilità di ritorno a lui, come afferma anche il profeta Gioele: “Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno, tardo all’ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura” (Gl 2,12-13). Ecco il vero volto di Dio che Gesù cerca di rivelare in ogni occasione.

La morte accidentale e improvvisa di queste persone viene, perciò, interpretata da Gesù come una circostanza dalla quale lasciarsi interpellare per affrettare la conversione. La morte, è imprevedibile ed è sempre in agguato, pertanto se non si è vigilanti si corre il rischio di precludersi la possibilità di salvarsi. Da qui la necessità di ravvedersi in tempo debito dal peccato, per evitare di farlo quando non ci sono più le condizioni, come tra l’altro Gesù evidenzia anche nella parabola del Povero Lazzaro e del ricco epulone (cf. Lc 16,19-31).

Ma come cogliere la grazia di Dio? Come riconoscerla quando sopraggiunge nella nostra vita? Quali condizioni occorrono per accoglierla? La risposta a queste domande ci fa sentire ancora una volta l’importanza del discernimento, che consiste nell’acquisire i criteri con cui riconoscere i segni dell’azione di Dio nella nostra vita. Si tratta di avere una tale familiarità con Dio da capire subito che si tratta di lui, anche quando le circostanze sembrano contraddirlo chiaramente. Non basta perciò assistere agli eventi, ma occorre anche la capacità di saperli interpretare, senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi culturali o religiosi del tempo, come dimostrano di avere coloro che interpellano Gesù. La morte, tranne nei casi di vecchiaia o di una prolungata malattia, può essere determinata dalla negligenza umana, come nel caso della torre di Siloe; dallo strapotere di un uomo politico, come nel caso di Pilato che aveva ordinato la repressione di quel gruppo di Galilei; oppure essere la conseguenza di una calamità naturale, come nel caso di un’alluvione, di un terremoto … in tutti questi casi la morte ci appare in tutta la sua imprevedibilità, per cui nessuno può sapere quando e come sopraggiunge. Occorre perciò vigilare, per farsi trovare pronti.

Come evitare il rischio di ritrovarsi in circostanze in cui pur volendo non si è più nella condizione di essere salvati da Dio? Per rispondere a questa ulteriore domanda troviamo utile rifarci alla parabola del fico sterile, nella quale Gesù chiarisce la necessità di realizzare la propria missione nella vita. La ragione per cui un contadino decide di piantare un albero di fichi in mezzo alla vigna è quella di deliziare con i suoi frutti gli operai durante il loro lavoro. Ma se il fico non svolge questa funzione non ha più motivo di essere coltivato. La sua presenza infatti può ingannare o deludere le attese di quanti cercano i suoi frutti. Allo stesso modo del fico anche il cristiano è chiamato a deliziare l’esistenza di coloro che invece sperimentano la durezza, la crudezza, la fatica della vita. Il cristiano è chiamato ad essere un punto di riferimento per quanti si ritrovano a navigare nelle brutte acque dell’angoscia o ad essere attraversati dalla disperazione, perché incapaci di sperare in un futuro migliore. Ad essere un faro di luce e di certezza per chi si ritrova a brancolare nel buio dei propri dubbi esistenziali. Ma se il cristiano delude queste attese che gli altri nutrono nei suoi confronti, che motivo ha più la sua presenza nel mondo? E come potrebbe diventare un motivo di speranza, di fiducia, di gioia per gli altri, se egli stesso si mostra sciatto, pigro, negligente, disattento, distratto, superficiale, triste, scettico, pessimista perfino a livello religioso? Chi mai potrebbe nutrire fiducia in lui o averlo come punto di riferimento della propria vita?

Ancora una volta dunque ne consegue la necessità di cominciare un cammino serio, autentico, onesto di conversione, senza limitarsi a quei formalismi tipici di una certa tradizione religiosa che riduce tutto ad abitudini moralmente scialbe, vuote, esteriori; totalmente prive di una spiritualità robusta, salda, capace di incidere su se stessi, sugli altri e sulla realtà. Per questa conversione però non basta la buona volontà, senza impegnarsi a curare le giuste condizioni per svilupparla e portarla a compimento. La conversione, al pari di tutte le altre realtà, necessita di preghiera, attenzione, preparazione, allenamento, perseveranza, costanza, continuità. Essa non accade sulla base di una decisione estemporanea, ma necessita di maturazione, esattamente come emerge dal racconto dell’Esodo, dove il popolo impiegò la bellezza di 430 anni per maturare la decisione di svincolarsi dalla schiavitù egizia. E per raggiungere la libertà non bastò uscire dall’Egitto, ma dovette attraversare la prova del mare e soprattutto del deserto, nel quale il Signore impiegò altri 40 anni, senza riuscirci, per liberarlo da tutti quei vincoli interiori che lo tenevano legato alla mentalità della vita precedente. Malgrado tutto essi continuarono a resistere ai suoi inviti tanto che “La maggior parte di loro non fu gradita a Dio, per cui marcì nel deserto” (cf. 1Cor 10,5), come ci ricorda san Paolo nella prima lettera ai Corinti.

Lo stesso discorso vale per chi decide di intraprendere un simile cammino: da una parte deve imparare a conoscere le fasi di maturazione: umana, psicologica, spirituale, intellettiva, relazionale, ecclesiale senza le quali la conversione rischia di rimanere solo allo stato iniziale, magari nutrita da un desiderio struggente, ma che difficilmente trova un’adeguata incarnazione nel vissuto quotidiano; dall’altra deve evitare di cedere alla tentazione di dilazionarla nel tempo, pensando di avere sempre infinite possibilità di compierla. Una volta giunto a maturazione occorre però decidersi, senza più dubitare, tergiversare, per evitare di snaturare la propria vocazione. Nessuno conosce l’imprevedibilità della vita, ancor meno chi confida solo in se stesso (cf. Ger 17,5). Da qui l’urgenza della conversione. Per Gesù la conversione non nasce da un dovere morale, ma da un’esigenza di libertà e soprattutto da un desiderio di comunione d’amore con Dio. Come non cogliere in questa sua ansia salvifica la ragione che motiva e anima il suo annuncio evangelico: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, pentitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15).

[1] Si tratta di una mentalità religiosa molto diffusa e radica nel popolo ebraico, originariamente definita dottrina e poi teoria della retribuzione, secondo la quale Dio premia i buoni e castiga i cattivi. In realtà essa non faceva che distorcere la vera immagine di Dio e alterarne la volontà, da qui l’occasione che Gesù coglie per confutarla. [2] Gli zeloti erano ebrei zelanti (da cui zeloti) della legge ebraica, caratterizzati da uno spirito religioso di marca chiaramente politico-sociale, il cui scopo era quello di rivendicare l’autonomia e libertà nei confronti del dominio romano.

Comments


© Copyright – Luigi RAZZANO– All rights reserved – tutti i diritti riservati”

  • Facebook
  • Black Icon Instagram
  • Black Icon YouTube
  • logo telegram
bottom of page