5 Marzo 2025 - Anno C - Mercoledì delle Ceneri
- don luigi
- 4 mar
- Tempo di lettura: 9 min
Gl 2,12-18; Sal 50/51; 2Cor 5,20-6,2; Mt 6,1-6.16-18
La conversione: uno stile di vita evangelico

“Così dice il Signore: Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, grande nell’amore, pronto a ravvedersi riguardo al male” (Gl 2,12-13).
“State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro ... Pertanto, quando fate l’elemosina … quando pregate … e quando digiunate non fate come fanno gli ipocriti che amano essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa” (cf. Mt 6,1-6.16-18).
Tra i brani biblici che la Liturgia ci propone quest’oggi e durante tutta la Quaresima, quelli del profeta Gioele e dell’evangelista Matteo sono certamente i più specifici e adeguati ad esprimere il suo messaggio centrale: la conversione. Tutte le pratiche religiose che la Chiesa ci chiede di esercitare in questo tempo forte, hanno come scopo la conversione. Essa consiste essenzialmente nella volontaria decisione di “ritornare a Dio con tutto il cuore”, specie quando questa scelta è motivata dalla consapevolezza della distanza tra la nostra condotta di vita e la “santità di Dio”. Cogliamo perciò ancor più in profondità l’importanza del discorso delle beatitudini – finora commentato – tutto incentrato sulla misericordia di Dio. Se c’è, dunque, un principio che motiva la conversione questo non va individuato nell’imperativo morale e religioso, sebbene esso non vada escluso, ma nella personale esperienza della “misericordia di Dio”, che suscita dentro di noi il desiderio di vederci pienamente convolti nella sua relazione d’amore. Pertanto la conversione, prima ancora di manifestarsi a livello morale e religioso, è una condizione spirituale che ci induce a una vera e propria sterzata esistenziale. In questo senso una conversione è autentica quando decidiamo liberamente di assumere lo stile di vita di Dio, di cui Gesù ci dà una straordinaria testimonianza nel suo Vangelo.
Così interpretata il nemico principale della conversione non è il peccato, inteso come volontaria trasgressione della norma morale, ma il formalismo religioso, ovvero l’“ipocrisia” di cui parla Gesù nell’attuale brano evangelico[1]. A giudizio di Gesù questa parvenza religiosa, fondata essenzialmente su un legalismo morale, svuota dall’interno la relazione con Dio. Chi concepisce e vive la fede in questo modo difficilmente intraprenderà un cammino di conversione. L’ipocrita, infatti, rispetto al peccatore, non si ritiene assolutamente bisogno di un cambiamento morale, poiché è convinto di essere già giusto e impeccabile, come attesta la parabola del fariseo e del pubblicano (cf. Lc 18,10-14).
La conversione costituisce un cambiamento interiore; un affare del cuore che rimane invisibile agli occhi, finché non viene reso visibile all’esterno, grazie ad alcuni segni, che ne attestano l’autenticità. Tra questi segni la Chiesa prevede anche quello dell’Imposizione delle ceneri, con cui ci fa iniziare la Quaresima. In quanto tale, questo gesto, dovrebbe manifestare la decisione, presa nel segreto della propria intimità, di “ritornare a Dio con tutto il cuore”. Diversamente, rischia di diventare un gesto ipocrita. La Quaresima costituisce, allora, un “momento favorevole”, durante il quale possiamo sperimentare concretamente “la salvezza” di Dio. Si capisce perciò la calorosa esortazione di Paolo: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. Egli, in qualità di collaboratore della giustizia, ci sprona “a non accogliere invano la grazia di Dio. Il quale ci dice: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso” (2Cor 5,20-6,2).
Così inteso questo tempo di quaresima costituisce allora l’occasione propizia per conoscere un po’ più da vicino la dinamica della conversione e magari riprendere la sua opera là dove è stata interrotta o appena cominciata. Molto spesso immaginiamo la conversione solo come un evento del tutto eccezionale, che accade solo a persone prescelte, in un preciso momento della loro vita, in modo così sconvolgente e decisivo, da determinarne una svolta radicale senza precedenti. In realtà, nella maggioranza dei casi, si tratta di un cammino ordinario, che ha origini remote e che spesso rimane ignoto e misterioso persino alla persona interessata. Durante questo periodo lo Spirito suscita aneliti, ispira intuizioni, matura pensieri, provoca decisioni, promuove incontri, tesse relazioni, genera vita, fino a determinare quell’atto conosciuto come “metanoia” o se si preferisce “conversione”, che consiste in un vero e proprio cambio di mentalità. Per cui tutto quel modo abitudinario di pensare Dio e la vita religiosa che ne scaturisce, viene completamente rinnovato dall’interno[2].
Da qui alcune domande che possono aiutarci a fare luce su di essa e soprattutto a capire il modo con cui tradurla nella vita quotidiana: come accade la conversione? Quali sono le condizioni e le tappe che ne garantiscono lo sviluppo? Quali invece i legami, i vincoli, i sentimenti, gli affetti, i pensieri che rischiano di ostacolarla? Il suo cambiamento riguarda solo la vita interiore o prevede anche una manifestazione esteriore? Quali sono i segni che la rendono visibile? Nel rispondere a queste domande mi sforzerò di individuare quei criteri, elementi e condizioni che possono aiutarci a riconoscere l’opera di Dio nella nostra vita, così da aderire sempre meglio all’azione dello Spirito che guida il nostro cuore all’ascolto della sua voce.
I vangeli parlano di essa come di un evento dello Spirito, provocato dall’incontro con Cristo, attraverso il quale Dio irrompe nella vita di una persona, determinandone un rinnovamento interiore così radicale, da indurla a lasciare tutto e a intraprendere uno stile di vita nuovo, conforme a quello evangelico di Cristo. Il suo sviluppo prevede una struttura umana e religiosa matura, che fa da sostrato a quella spirituale, sulla quale Dio interviene per cominciare la sua opera. Una persona umanamente chiusa, egocentrica, scettica, sospettosa, diffidente, calcolatrice è ben lontana dall’intraprendere un cammino spirituale che invece richiede slancio, generosità, bontà, fiducia, arditezza, libertà. Dio, che interviene attraverso eventi, circostanze, incontri, situazioni spesso anche dolorose, non fa che stimolare costantemente la persona ad uscire fuori di sé e a intraprendere un rapporto di fiducia con lui, fino a creare una stima reciproca così intima, intensa e profonda, da diventare ragione stessa di vita. L’amore tra di loro diventa così assoluto, esclusivo, passionale da essere forte come la morte, tenace come gli inferi, fino a diventare un roveto ardente che neppure i fiumi possono spegnere (cf. Ct 8,6-7, Es 3,1-2).
Questa relazione tuttavia prima di acquisire una simile forma, necessita di passare attraverso alcune tappe graduali, nelle quali non mancano alti e bassi, fedeltà e tradimenti, aperture e chiusure, slanci mistici e licenziose corruzioni, manifestazioni ineffabili e rigide resistenze, esattamente come accade tra Dio e il popolo durante la storia biblica della salvezza. Quella degli uomini con Dio non è una storia di virtuosi, ma di peccatori che chiedono continuamente di essere perdonati, guariti e salvati. Per questa ragione la conversione richiede come condizione fondamentale il pentimento (cf. Mt 3,2), l’umiltà (Lc 14,11) e il perdono (cf. Lc 5,8). Questi atteggiamenti vengono assimilati non già perché si è mossi da un precetto religioso, ma perché provocati da un incontro personale con Cristo (cf. Lc 19,1-10). Così figure come quelle di Zaccheo, della Samaritana, dell’Adultera, di Pietro … e parabole come quella del Figliol prodigo (Lc 15,11-32), della Dracma perduta (Lc 15,8-10) e della Pecorella smarrita (Lc 15,4-7), possono costituire indiscutibili punti di riferimento per chiunque desideri intraprendere un autentico cammino di conversione, durante questo tempo di Quaresima.
Il profeta Gioele parla di questo rinnovamento come di un ritorno a Dio, originato dalla stessa implorazione divina: “Ritornate a me con tutto il cuore” (Gl 2,12), e confermato dalla personale testimonianza del profeta: “Egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore, pronto a ravvedersi riguardo al male” (Gl 2,13). Dio provoca il nostro ritorno infondendo nel cuore un’indomabile nostalgia di lui e della sua casa, simile a quella descritta nella parabola del figliol prodigo, quando, a seguito dell’incresciosa esperienza di peccato, il giovane matura la decisione di ritornare alla casa del padre (cf. Lc 15,17-19). È qui che rinasce in noi la possibilità di invertire la rotta della nostra esistenza[3].
Gesù traduce questo ritorno a Dio con un movimento introspettivo, nel quale l’uomo è invitato a rientrare in se stesso: “Quando preghi, entra nella tua camera” (Mt 6,6). Lo stesso movimento del figliol prodigo (cf. Lc 15,17). Si tratta dunque di un movimento decisivo nel quale il peccatore scopre la possibilità di risignificare tutta la propria vita, partecipando dell’azione ricreativa dello Spirito che “fa nuove tutte le cose” (cf. Ap 21,5); e dell’opera del Padre, ricompreso come il centro unificativo del proprio io. Per Gesù allora il digiuno[4], la preghiera e l’elemosina in tanto hanno senso in quanto costituiscono segni manifestativi di un cambiamento interiore, nel quale l’uomo decide il suo desiderio di conformare la propria vita a quella evangelica di Gesù. È la testimonianza di questa vita a dare ragione e a manifestare esternamente la nostra reale conversione a Cristo.
Queste testimonianze bibliche ci fanno capire che la conversione non è affatto una situazione che può essere attuata così di buon grado, sull’onda di una estemporanea generosità e bontà, ma necessita di una ferma e costante convinzione, che consiste nel verificare le giuste disposizioni mentali, psichiche, spirituali per portarla a compimento. Gesù parla di queste disposizioni nella metafora della torre (cf. Lc 14, 28-30), con la quale, rivolgendosi a coloro che avevano chiesto di seguirlo, dice di verificare le prerogative personali, prima di intraprendere questa impresa. Da qui la ragione che lo spinge ad elencare una serie di condizioni (cf. Lc 14,26-27; 19,21.29; Mc 8,34-37; Mt 16,24-26), con le quali, tutti coloro che, allora come oggi, avvertono il desiderio di aderire al suo Vangelo, sono chiamati a confrontarsi. Esse diventano perciò il criterio per verificare l’idoneità della sequela. In questo senso convertirsi a Cristo non significa porsi solo dietro di lui o fare una semplice professione di fede, e neppure eseguire in modo servile i suoi precetti, ma conformarsi al suo modo di pensare, di amare, di vivere, di relazionarsi. In altre parole, significa aderire e condividere la sua logica di vita. È qui lo zoccolo duro che garantisce il cambiamento. La conversione prevede perciò la revisione di quelle qualità umane e disposizioni religiose, morali, spirituali, mentali, affettive, relazionali senza le quali il processo di conversione rischia di esporci al ridicolo e alla derisione degli altri (cf. Lc 14,29-30), o di ridursi solo a un fragile germoglio che secca non appena subentrano le prove della vita (cf. Lc 8,13), provocando in questo modo solo una drammatica ed inutile disfatta esistenziale (cf. Lc 14,31-32). Il rito delle ceneri presuppone allora due atteggiamenti fondamentali per la conversione: l’umiltà e il rinnegamento di sé. Siamo disposti a cominciare la Quaresima in questo modo?
[1] Si tratta di un atteggiamento simulatorio che preclude la possibilità di un rapporto autentico e sincero con Dio e con gli altri. Mentre la fede invita ad interiorizzare e ad assimilare personalmente la volontà di Dio, l’ipocrisia favorisce un’osservanza esteriore. Da qui la ragione della sua condanna da parte di Gesù. Essa tradisce, infatti, il senso della legge e della religione stessa. Molte persone, religiosamente motivate, manifestano un sincero desiderio di conoscere Dio e sono ben disposte a accogliere e seguire i suoi insegnamenti, ma quando si presenta loro la necessità di cambiare il proprio stile di vita, preferiscono limitarsi ad un formalismo religioso. Da una parte essi si onorano del ruolo religioso, per la stima che viene loro riconosciuta a livello sociale; dall’altra le condizioni morali e spirituali che esso richiede risultano troppo gravose per le loro esigenze. Da qui la preferenza di un atteggiamento puramente formale. Questo atteggiamento simulatorio affonda le sue radici nel significato etimologico del termine ipocrita, che deriva da quello greco di ypokrites che significa attore, ovvero colui che simula i gesti, imita i linguaggi, la voce degli altri. Ypokrites dunque, almeno nell’antica Grecia, non aveva alcun significato morale. È semplicemente un attore. A livello sociale il termine assume un significato morale, per cui ipocrita è colui che smette di essere se stesso, e vive dietro una maschera.
[2] Ciò non esclude quei casi dove effettivamente questo processo di cambiamento accade in modo così repentino, da diventare eccezionale, sebbene in questi casi, accanto all’intervento divino non vada esclusa la componente caratteriale di una personalità decisiva e forte. La Bibbia è costellata di questi episodi, basti pensare alla conversione di san Paolo o a quella dei primi discepoli, e prima ancora di Maria. D’altra parte non fa mistero su coloro che, invece, fanno fatica a liberarsi di tutto quel groviglio di pensieri fatto di indugi, dubbi, incertezze, indecisioni, ripensamenti che rischiano di rallentare e perfino di soffocare il cammino di conversione. Basterebbe leggersi il racconto della chiamata di Gedeone (cf. Gdc 6-8), o quella del Giovane ricco (cf. Lc 18,18-30), per rendersi conto dell’estremo realismo con cui la Bibbia descrive questo processo di conversione e della concreta possibilità che esso rimanga solo a livello di desiderio.
[3] Si tratta di un momento di grazia che san Paolo esorta a non lasciar passare invano (cf. 2Cor 5,20). Dio ripetutamente sussurra al nostro cuore: “Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso” (Is 49,8). L’apostolo, come sollecitato dal desiderio struggente di far cogliere questa speciale opportunità dello Spirito, ribadisce: “Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza” (2Cor 6,2).
[4] Senza escludere la valenza morale e religiosa di cui anche Gesù dà prova durante la permanenza nel deserto, si rivela particolarmente interessante quello che dice il profeta Isaia a proposito del digiuno gradito a Dio (Is 58,1-12), così lontano da quello praticato da noi e ridotto solitamente solo all’astinenza dai cibi.
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