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6 Aprile 2025 - Anno C - V Domenica di Quaresima


 

Is 43,16-21; Sal 125/126; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11

 



Il perdono:

la via verso la libertà


Luigi Razzano, Leopold Mandic: una pagina di misericordia (2016), Santuario di S. L. Mandic – Padova
Luigi Razzano, Leopold Mandic: una pagina di misericordia (2016), Santuario di S. L. Mandic – Padova

“Gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo … e poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei … Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed ella rispose: Nessuno, Signore. E Gesù disse: Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più (cf. Gv 8,1-11).

Dopo la parabola del Figliol prodigo la Liturgia ci propone un episodio anch’esso rivelativo del volto misericordioso di Dio, come a voler dire che anche Gesù, al pari del padre della parabola, presenta tutte le caratteristiche del Dio misericordioso. Entrambe le scene, pertanto, inserite all’interno di questo tempo liturgico, non fanno che ribadire la vera intenzione di Dio: “Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (Ez 33,11).

Ma proviamo a vedere più da vicino la modalità con cui Gesù attualizza nell’oggi del suo vissuto relazionale questa caratteristica tutta divina. L’occasione gli viene offerta da un caso morale, sul quale viene interpellato per dirimerne la questione. L’episodio evangelico ci riferisce, infatti, di una donna, colta in flagrante adulterio, presentatagli con l’esplicito intento di metterlo alla prova e trovare in lui un motivo di cui accusarlo, a causa del suo operato, ritenuto troppo generoso e permissivo nel dispensare la misericordia di Dio ai peccatori.

Il caso, com’è evidente, è orchestrato ad arte, ed è uno di quelli che la legge mosaica non ammette equivoci: la condanna alla lapidazione, senza mezzi termini, della donna e dell’uomo che vengono colti in flagrante adulterio (cf. Dt 22, 1ss; 5, 18; Lv 18, 20; 20,10; Es 20,14). A Gesù tuttavia viene presentata solo la donna, a testimonianza della perfida intenzione dei suoi interlocutori. Secondo gli accusatori Gesù non avrebbe dovuto avere scampo: comunque sarebbe stata la sua risposta, essi avrebbero trovato in lui un motivo per condannarlo. Infatti, nel caso in cui avesse approvato la pena della donna, lo avrebbero accusato di contraddire l’amore misericordioso che andava predicando; se invece l’avesse perdonata, allora lo avrebbero accusato di essere trasgressore della legge. Ma, contrariamente alle loro previsioni, Gesù dà una risposta lapidaria, assolutamente imprevedibile: “Chi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei” (Gv 8,7). Nessuno avrebbe mai immaginato una risposta così disarmante, con la quale sgretolò in un solo colpo tutto il loro sistema giudiziario, fondato sulla condanna del reo e del reato. Gesù, col suo atteggiamento, rompe definitivamente con la tradizionale teoria della retribuzione che vede Dio condannare i peccatori e premiare i buoni. Pertanto, mentre per i farisei e gli scribi la questione costituisce un caso morale da risolvere; per Gesù, invece, al centro della questione c’è un persona da salvare. I primi identificano la trasgressione col trasgressore e come tale va condannato ed eliminato. Gesù, al contrario, opera una fondamentale distinzione: il peccato va biasimato, mentre il peccatore merita la possibilità di essere giustificato e perdonato. L’atteggiamento considerato troppo scandaloso dalla morale farisaica[1] esprime in pieno, invece, il senso del perdono, che come dice il termine è un dono che Dio elargisce gratuitamente per noi, indipendentemente dalla nostra condotta morale e religiosa. Esso non ci viene offerto in base ai nostri meriti, ma per l’eccedenza dell’amore di Cristo: “Donna dove sono? Nessuno ti ha condannata?”, dice Gesù all’adultera. “Ed ella rispose: Nessuno, Signore. E Gesù disse: Neanche io ti condanno” (Gv 8,10-11).

È interessante notare che la giustificazione che Gesù elargisce così gratuitamente, senza alcuna richiesta morale previa, è anche l’esperienza che Paolo sintetizza nella sua lettera ai Filippesi, nel brano che la liturgia ci propone per la circostanza, con la quale egli cerca di far prendere coscienza ai suoi interlocutori del rischio al quale si stanno pericolosamente esponendo, benché essi abbiano aderito già alla fede in Cristo. Condizionati da alcuni cristiani provenienti dal giudaismo, essi cominciarono a credere che per salvarsi occorreva ripercorrere l’intero itinerario religioso e morale tracciato da Mosè, che Paolo invece, alla luce della sua personale esperienza di giustificazione ricevuta da Cristo, riteneva assolutamente superfluo. Per la salvezza non occorre più osservare pedissequamente la legge, ma aderire all’amore redentivo che Dio elargisce attraverso Cristo.

Paolo aveva colto molto bene questo pericoloso aspetto della Legge, e grazie alla sapienza proveniente dalla personale rivelazione di Cristo poteva, ora, considerare spazzatura tutta la pratica religiosa fondata esclusivamente sulla legge e ritenerla superata nella funzione giustificativa e salvifica dell’uomo: “Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose[2] e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede (Fil 3, 9-10). È la fede in Cristo e non l’osservanza della Legge a garantire la salvezza dell’uomo. È questa la strada che Dio gli aveva aperto nel cuore e che lui intendeva aprire, ora, nel cuore delle comunità provenienti dal giudaismo. Dinanzi a Cristo ogni idea e desiderio auto-giustificativo umano viene a cadere a favore di una salvezza che viene autenticamente solo da Dio in Cristo. In Cristo Dio fa una cosa nuova: mette nel cuore dell’uomo la vita stessa di Dio, il suo amore trasfigurativo (cf. Is 43,17s). 

Quello dei Filippesi, in realtà, è il pericolo al quale ci esponiamo anche noi, tutte le volte che, come i farisei, facciamo della legge morale uno strumento di giudizio degli altri, col quale anziché renderli partecipi dell’amore salvifico di Cristo, ci riduciamo a condannarli. Dinanzi a questo pericolo anche noi abbiamo bisogno di liberarci di quell’atteggiamento farisaico che persiste tenacemente dentro la nostra mentalità religiosa, che ci fa ritenere la salvezza una conseguenza della nostra impeccabile osservanza della legge, piuttosto che come un dono gratuito che “viene dalla fede in Cristo” (Fil 3,9).

Considerati nella loro unità questi due brani biblici tracciano allora il nostro cammino quaresimale verso la Pasqua. Anche noi siamo chiamati a rinnovare il nostro passaggio da una vita di esilio da Dio, ad un incontro personale col suo amore misericordioso. Convinti che il passaggio non si riduce a un’azione fisica, né a un gesto rituale, ma è la manifestazione visibile di un evento spirituale che accade nella fede, ovvero nel riconoscimento dell’azione redentiva di Dio nella nostra vita.

Anche noi come al donna adultera e precedentemente come il figliol prodigo, abbiamo bisogno di operare queto passaggio dalla morte alla vita (cf. 1Gv 3,14) lasciandoci impregnare dell’amore di Cristo. La salvezza è nient’altro che questa partecipazione alla comunione d’amore di Cristo. Il perdono che scaturisce da questo amore e la vita nuova alla quale esso ci apre, costituiscono allora, la novità preannunciata dal profeta Isaia: “Non ricordate più le cose passate, / non pensate più alle cose antiche! / Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? / Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa … per dissetare il mio popolo, il mio eletto”.

Cos’è allora la Pasqua se non quella straordinaria esperienza di libertà[3], della quale Cristo ci rende partecipe attraverso “la sua giustificazione”? [4] Qual è la sapienza divina che siamo chiamati ad acquisire se non quella mentalità evangelica che ci porta a considerare necessaria la nostra adesione alla sofferenza di Cristo, per partecipare anche della sua Risurrezione (cf. Fil 3,10-11). 

 

 

 

 


[1] È opportuno ricordare che l’episodio evangelico ha suscitato nel passato non poche perplessità anche all’interno degli ambienti cristiani, condizionati da un moralismo rigoroso, tant’è che si faticava non poco a proporlo come brano liturgico. Stando al racconto sembra, infatti, che Gesù non preveda alcun pentimento previo da parte della donna, ma tutto viene elargito con una generosità assolutamente gratuita. In realtà è proprio questa estrema prodigalità di Gesù a suscitare nella donna il pentimento e la sua conversione.  

[2] “Le cose” alle quali si riferisce Paolo non sono affatto le situazioni immorali della sua vita precedente, bensì quella mentalità religiosa che lo induceva a pensare la salvezza come la conseguenza della sua fedele applicazione della legge. Paolo era una persona integra, zelante, ma un po’ come tanti farisei, era divenuto vittima di una perversa e insidiosa interpretazione della legge. Egli era convinto che la fedeltà alla legge gli avrebbe garantito la salvezza, ma più si sforzava di seguirla e applicarla in tutto il suo rigore, più essa gli faceva prendere coscienza dell’impossibilità di una simile impresa. Finché Cristo non gli fa scoprire la salvezza come un dono della fede in lui. Questo cambio di mentalità religiosa avvenuto in Paolo è esattamente quello che la Chiesa ci invita a fare attraverso il cammino quaresimale.

[3] La libertà costituisce senza dubbio il criterio più chiaro ed esplicativo per riconoscere l’opera dello Spirito di Dio in noi. Sentirsi liberi, leggeri, puri dopo essersi riconciliati con Dio, con l’altro, con se stessi, col creato, significa pregustare, già nell’oggi della fede, la vita pasquale di Cristo.

[4] Per avere un’idea del significato che Paolo attribuisce al termine “giustificazione”, si rivela efficace un esempio che ritengo comune a tanti di noi, quando ritrovandosi al mattino a scuola, dopo un pomeriggio trascorso senza studiare, si chiede al professore di essere esonerato dall’interrogazione. La gratuita giustificazione che inaspettatamente ci viene concessa, ci evita quelle spiacevoli sorprese che ritenevamo di meritarci. La stessa cosa accade anche quando Cristo, per amore, ci giustifica gratuitamente davanti a Dio, evitando così di farci sperimentare le conseguenze del peccato. 

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