6 Gennaio 2025 - Anno C - Epifania del Signore
- don luigi
- 5 gen
- Tempo di lettura: 6 min
Is 60,1-6; Sal 71; Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12
I Magi:
nomadi della verità

“Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto la sua stella, e siamo venuti per adorarlo … Ed ecco la stella … giunse sopra il luogo dove si trovava il bambino … ed essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono” (Mt 2,1-2.9-11).
È con queste parole che Matteo ricostruisce l’episodio, alquanto enigmatico, dell’incontro dei Magi col bambino Gesù. Un episodio esclusivamente matteano, del quale l’evangelista ci fornisce notizie così stringate che praticamente risulta difficile capire l’identità di questi personaggi. Diversamente ci appare più chiara l’interpretazione che la tradizione esegetica dà di questo episodio, teso com’è ad evidenziare il carattere universale dell’epifania di Dio al mondo intero, di cui questi personaggi vengono riconosciuti come rappresentanti. Riletti in questa chiave interpretativa gli episodi evangelici che abbiamo avuto modo di leggere e commentare durante il periodo che va dall’Avvento ad oggi, ci fanno assistere ad un crescente rivelativo di Dio, lasciandoci intravedere il piano di salvezza che Dio ha manifestato con l’Evento Incarnativo di Cristo. Un’epifania[1] di salvezza, dunque, quella che si dischiude davanti a noi che ci fa capire come la rivelazione di Dio, fino ad ora riservata solo a Israele, viene estesa anche alle “genti” che – come afferma san Paolo – sono “chiamate in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo” (Ef 3,6). Dio si manifesta, ma lo fa senza nessun segno glorioso e appariscente – tipico delle teofanie[2] veterotestamentarie – che attirino la nostra attenzione. Solo episodi di vita quotidiana che, tuttavia, ridisegnano la logica rivelativa di Dio. L’Epifania inaugura così il nuovo modo di darsi a vedere di Dio nel mondo, nella forma del Bambino Gesù, secondo quello che dice l’evangelista Giovanni nel suo Prologo: “Dio, nessuno l’ha visto mai. L’Unigenito Dio, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18).
Ancora una volta, dunque, la Chiesa insiste sulla dinamica rivelativa di Dio che ciascuno di noi è chiamato a conoscere, per meglio aderire alla salvezza che lui ci propone in Cristo. Una dinamica caratterizzata da luci e ombre, da smarrimenti e scoperte, da aperture e riconoscimenti, aridità e slanci come viene tratteggiata dai protagonisti di questo brano evangelico: i Magi.
Cogliamo l’occasione per interrogarci su di loro, non tanto per sapere chi erano, quanto per capire cosa rappresentano per il nostro cammino di fede. Matteo – come dicevamo – non offre molti dati in proposito. Egli è l’unico evangelista a menzionarli, con una descrizione estremamente sobria che non si presta a darci un profilo preciso della loro identità. Difficile è sapere anche da dove lui abbia attinto questi dati. La loro scarsità non ci impedisce di immaginare quella tradizione che ha arricchito l’identità di questi personaggi con elementi piuttosto leggendari. La presenza inoltre di alcuni dati che corredano il loro racconto come: l’oriente, la stella, la strada, i doni, l’incontro con Erode e con le Scritture … contribuiscono ad esplicitare il senso che essi assumono per la nostra vita spirituale e intellettiva. Un dato certo, condiviso dagli studiosi, è che la loro presenza nel vangelo non si riduce ad uno scopo meramente simbolico o didattico, ma attesta il reale riconoscimento della divinità di Gesù sin dalla sua nascita. Matteo infatti ci informa che essi, mossi dal chiaro intendo di “adorare il re dei Giudei”[3] e guidati da una stella, giunsero nel borgo di Betlemme, dove lo riconobbero nel Bambino Gesù e “prostratosi lo adorarono” (Mt 2,2.11). Essi, dunque, pur muovendo da una ricerca umana sfociano in una sapienza divina. Un dato rilevante per noi che tendiamo spesso a ridurre la conoscenza solo ad un livello razionale e scientifico o a racchiuderla all’interno di un orizzonte immanente.
Sorprende che uomini provenienti da un contesto religioso e culturale del tutto diverso da quello ebraico, giungano ad una simile scoperta. In questo senso i Magi, incarnano tutti coloro che sono animati dal desiderio di conoscere la verità e pur disponendo di una sapienza umana, non esitano a lasciarsi interpellare dalle Scritture e a illuminare la loro intelligenza dalla luce proveniente dalla rivelazione divina. Particolarmente significativa si rivela anche la perseveranza con cui conducono la loro ricerca: essi rimangono fedeli all’originaria intuizione anche quando la stella, simbolo della luce divina, scompare dalla loro vista. Ammirevole perciò è l’onestà intellettiva e spirituale con cui conducono la loro ricerca; così come la raffinata sensibilità che consente loro di leggere i segni dei tempi e l’umiltà che manifestano una volta giunti alla loro scoperta. La capacità con cui penetrano il mistero di Dio, diventa per la nostra intelligenza, un monito. Un’operazione per nulla facile la loro, perché la verità di Dio non è mai palese ed evidente. Al contrario essa appare sempre piccola, apparentemente insignificante, fragile, appena visibile, come un granello di senape. Esattamente come il bambino che incontrano. La verità che essi scoprono non è un concetto astratto, ma una realtà viva o meglio una persona vivente, per altro niente affatto potente, ma povera, fragile, debole. La loro è una verità rivestita di umanità, riconosciuta come luogo e via fondamentale della salvezza universale.
Diametralmente opposto è invece l’atteggiamento di Erode, che costituisce l’emblema di quanti hanno smarrito o rinunciato a quello slancio vitale e divino che muove ogni persona ad uscire fuori di sé e a trovare nell’a/Altro da sé la pienezza e il compimento della loro esistenza. Il senso della sua vita sembra, dunque, tutto inscritto nel suo nome: Erode, infatti non è solo un nome di persona, ma anche il verbo che indica quel lento e progressivo processo di erosione che consuma anche le superfici più dure. In questo senso egli erode, ovvero corrode tutto ciò che c’è di divino nell’uomo, perciò, consumato dalla smania del potere, diventa l’immagine dell’istituzione rigida e inflessibile che uccide, frantuma e divora tutti coloro che minacciano l’esercizio della propria autorità. Egli è l’epilogo estremo di quel regime monarchico del regno d’Israele considerato “inutile e dannoso” da alcuni profeti (cf. Gdc 9,7-20). La religiosità di cui si riveste è solo uno strumento per raggiungere il potere politico che esercita come forma di prestigio personale. La sua regalità non ha nulla a che vedere con quella rappresentanza divina per cui era stata istituita da Dio, diventando così la forma più evidente della resistenza e perfino del rifiuto dell’azione rivelativa e innovativa dello Spirito che opera in ciascuna persona.
L’Adorazione dei Magi si rivela così un episodio fondamentale per la nostra conoscenza del mistero di Dio. Esso costituisce il punto d’incontro tra due movimenti: quello rivelativo di Dio, col quale egli decide di comunicare all’uomo il suo piano d’amore salvifico; e quello intellettivo dell’uomo, col quale noi desideriamo pervenire alla conoscenza della Verità. Due movimenti: uno discendente e l’altro ascendente. Entrambi convergono nella sinergia dello Spirito di Dio e dello spirito dell’uomo, secondo le parole di Gesù a Cesarea di Filippo, che rivelano il modo con cui ogni persona può pervenire alla conoscenza di Dio (cf. Mt 16, 13-20). “Né carne né sangue”, dice Gesù a Pietro, il che significa che alla conoscenza di Dio non si perviene né per mezzo della sola ragione, né per mezzo della sola tradizione sapienziale umana. Dio si comunica all’intelligenza di quanti, illuminati dallo Spirito, riconoscono nel Verbo, ovvero nel Cristo il principio, il senso, il fine e il compimento della loro esistenza umana. In questo senso i Magi costituiscono un’anticipazione di quella visione salvifica universale descritta dal profeta Isaia, secondo la quale i popoli di tutto il mondo si raduneranno per proclamare “le glorie di Dio” (Is 60,6). Essi diventano perciò l’immagine di quelli che potremmo definire i Nomadi della Verità, ovvero di coloro che sono consapevoli che nessuna sapienza umana potrà mai appagare quella sete di infinito e di eternità che Dio ha posto dentro di noi. A differenza di loro magari non disponiamo di uno scrigno carico di doni, ma certamente di un cuore desideroso di essere impregnato dalla Verità che ci rende liberi (cf. Gv 8,32).
[1] Epifania è un termine greco che deriva dal verbo epiphànein, composto da epì (dall’alto) e phànein (apparire) che significa: manifestazione della divinità. Nell’antica Grecia, l’epifania era la festa che celebrava le manifestazioni di una divinità, che avvenivano nel naos, la parte più segreta e inaccessibile del tempio. Con l’avvento del cristianesimo il termine diviene specifico della rivelazione cristiana alle genti.
[2] Termine greco composto da Theos = Dio e phàinein = manifestarsi, letteralmente manifestazione di Dio, attraverso una forma o un segno sensibile.
[3] È interessante notare come questo titolo regale viene menzionato in questa circostanza e poi ripreso più estesamente durante il processo che il tribunale romano tiene a Gesù e, infine, inciso in tre lingue da Pilato sul cartiglio, posto sopra la sua croce, come a testimoniare il carattere misterioso della regalità di Cristo, che appare evidente fin dalla nascita.
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