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9 Febbraio 2025 - Anno C - V Domenica del Tempo Ordinario


 

Is 6,1-2a.3-8; Sal 137/138; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11

 

La fede come atto di adesione

all’amore di Dio


Raffaello, La pesca miracolosa (1515-1516), Victoria and albert Museum, Londra
Raffaello, La pesca miracolosa (1515-1516), Victoria and albert Museum, Londra

“Eccomi, manda me!” (Is 6,8), “Sulla tua parola getterò le reti” (Lc 5,5); sono le formule con cui Isaia e Pietro esprimono rispettivamente la loro piena adesione alla chiamata di Dio. La Liturgia della Parola ce le propone come testimonianza di fede, per mettere a fuoco il tema della chiamata. In realtà ciascuna espressione, compresa quella di Paolo della lettera ai Corinzi, dove fa menzione della sua chiamata all’apostolato (cf 1Cor 15,8), contribuisce a evidenziare un aspetto caratteristico di questo tema[1].

Rileggendo questi racconti vocazionali dopo aver descritto l’amara e cocente delusione che Gesù sperimenta nella sinagoga di Nazaret, possiamo immaginare la difficoltà a rinnovare il proprio sì alla chiamata divina. Rimettersi ad evangelizzare dopo un rifiuto così evidente è segno di una straordinaria fortezza e temperanza[2]. Solo chi, come Isaia, Pietro e Paolo, rimane impregnato dell’amore di Dio, può continuare ad amare l’uomo, malgrado la sua chiara ostilità[3], come quella conosciuta da Gesù[4]. Tuttavia, di contro al rifiuto dei nazaretani, troviamo ora la generosa disponibilità dei primi discepoli[5]. Noi cecheremo di commentare questi episodi, partendo dalla chiamata di Isaia.

Sebbene appartenesse alla Tribù di Levi, Isaia non era un sacerdote. Ed è lui stesso ad informarci della sua chiamata profetica, che accade all’interno di una straordinaria visione mistica capitatagli nel tempio (cf. Is 6,1), praticamente in un ambiente liturgico-sacrale. Tale contesto appare evidente anche dal linguaggio teofanico (manifestazione, visione di Dio) con cui l’autore descrive l’episodio vocazionale, teso a evidenziare la trascendenza di Dio, attraverso la descrizione dei serafini che ne proclamano la “santità” (cf. Is 6,3). La presenza di Dio non solo colma il tempio, ma trasborda dalle mura, per riempire anche la terra della sua gloria. Gli elementi del “fumo” e della “voce” sottolineano il carattere mistico della manifestazione divina. A partire da quella visione Isaia prende coscienza della sua chiamata profetica. Egli capisce di essere la bocca stessa di Dio, attraverso la quale questi comunica la sua volontà. Da qui la responsabilità e l’esigenza di purificare le sue labbra. Un atto che viene compiuto per mezzo di un carbone ardente, posto direttamente da un serafino sulla sua bocca. Questa annotazione di Isaia assume qui una valenza simbolica e ci consente di capire lo specifico della vocazione profetica: egli è per definizione colui che parla (phēmi) a favore (pro), o a nome, di Dio, come si evince dal significato del termine “profeta”. Da questo episodio si capisce la particolare rivelazione biblica: prima ancora che svelare il suo volto Dio comunica la sua volontà per mezzo della sua parola. Prima ancora che “visiva” la rivelazione biblica è “uditiva”. Lo specifico di Yhwh è quello di manifestarsi parlando. Egli non fa vedere il suo volto – come aveva chiesto Mosè (cf. Es 33,17-19) – ma si rivela attraverso la sua Parola[6], con la quale esplicita la sua volontà.

Ma come si fa a capire la volontà di Dio? In che modo Dio parla a ciascuno di noi? Com’è possibile capire la propria vocazione? Sono le domande alle quali la stragrande maggioranza dei cristiani trova difficile dare una risposta. Eppure la Bibbia è costellata di brani che ne chiariscono il contenuto. Nello specifico del profeta Isaia prendiamo atto che essa si manifesta a partire da una chiara esperienza d’amore di Dio, che il figlio di Amoz (Is 1,1) traduce in termini di “santità”. È nella luce di questa esperienza d’amore che Isaia, alla domanda di Dio: “Chi manderò e chi andrà per noi?”, risponde: “Eccomi, manda me” (Is 6, 8), come a sottolineare la totale disponibilità e generosità a condividere l’amore di Dio e a divulgare nel mondo il suo piano salvifico. Pertanto, fare la volontà di Dio non significa eseguire il comando di un tiranno, la cui intenzione è quella di assoggettare gli uomini a sé o ridurli solo ad esecutori dei propri piani; ma significa, in primo luogo, partecipare dell’amore di Dio e, in secondo luogo, nutrire quel desiderio intimo e profondo, che porta a condividere con gli altri la propria personale esperienza d’amore. Il senso della vocazione è tutto qui. Esattamente come Dio fa attraverso Gesù, il quale ci dice che la prima volontà di Dio è quella vederci persone libere[7], ovvero redente dal suo amore (cf. Gv 6,37-40).

Nell’episodio evangelico descritto da Luca assistiamo, infatti, a un radicale rinnovamento della chiamata di Dio. Se quella di Isaia era collocata nello spazio liturgico del tempio, ora essa accade lungo la riva del lago di Genesaret, praticamente nel contesto della vita quotidiana. E mentre quella di Isaia avviene per mezzo di una “teofania”, ora, essa accade per mezzo di una relazione interpersonale con Gesù. È attraverso di lui che Dio chiama e rende partecipe gli uomini della sua volontà[8]. Con Gesù Dio non si lascia solo ascoltare, come nel caso di Isaia, ma si fa addirittura vedere e toccare.

Ma proviamo a vedere da vicino la particolare esperienza di fede che Gesù fa fare a Pietro. Gesù sta predicando lungo la riva del lago di Genesaret. La gente piano piano comincia a circondarlo, attratta com’era dalla sua parola. Ognuno, nel tentativo di ascoltarlo e vederlo meglio, si accosta a lui, e lo fa come accade in queste circostanze: spingendo e facendosi largo con le braccia. Scoppia così una ressa che Gesù cerca di sedare come può; finché vede due barche ormeggiate alla riva e chiede di salire su una di esse, così da farsi vedere e udire da tutti. Una di queste due barche era di Pietro che, rientrato da poco dalla pesca, era ancora intendo, insieme ai suoi soci, a lavare e riassettare le reti. Nonostante tutta la fatica e la delusione di una pesca fallimentare, Pietro si rende disponibile alla richiesta di Gesù: “Prendi il largo”, anzi, la cosa comincia a intricarlo e entusiasmarlo. Mai si sarebbe aspettato che un maestro come Gesù gli avrebbe chiesto addirittura di salire sulla sua barca. Questa inattesa richiesta gli cambia improvvisamente l’umore: lo sconforto e la stanchezza di una notte passata infruttuosa sembrano velocemente svanire. Alla tristezza subentra l’entusiasmo e alla stanchezza l’ardore. In questo rinnovata ed inaspettata condizione spirituale, Pietro comincia, senza volerlo, ad ascoltare la voce di Gesù. La cosa si rivela intrigante. Ma quando tutto sembra andare per il meglio, Gesù gli rivolge un’ulteriore richiesta che smorza improvvisamente il suo ritrovato entusiasmo: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca” (Lc 5,4). Un’istanza inattesa e apparentemente assurda che si rivela particolarmente imbarazzante. Anzi, lo espone addirittura al ridicolo. Nessun pescatore getta le reti di giorno. Cosa fare? Ci si guarda l’un l’altro, rimanendo indecisi. Pietro cerca di rompere quel pesante silenzio generato dalla richiesta di Gesù e avanza una giustificazione: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” (Lc 5,5). Ma intuisce che non può sottrarsi alla provocazione di Gesù. Una serie di rapidi sentimenti si susseguono e si accavallano dentro di lui. Ma alla fine decide di lasciarsi mettere in gioco da quella richiesta: “Getta le reti”. Per lui quell’istanza di Gesù risuona come una voce che gli dice: getta le tue fatiche, lancia in Dio le tue preoccupazioni e fidati. Ne scaturisce un’esperienza di fede che Luca sintetizza e formula in questi termini: “Sulla tua parola getterò le reti”. Una formula che è un capolavoro di letteratura spirituale, che rivela tutta la disponibilità e la generosità di Pietro, assai simile a quella manifestata da Isaia: “Eccomi, manda me!”.

Questa esperienza segna la vita di Pietro e dà una sterzata alla sua esistenza. Gesù gli prospetta una nuova vita, risignificando in modo radicale il suo lavoro: “D’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5,10). Proviamo a soffermarci su questo particolare. Cosa fa Gesù? Prima di chiedergli di lasciare tutto per lui, gli fa fare un’esperienza dell’amore di Dio, che si manifesta nella forma della pesca miracolosa, alla cui luce Pietro prende coscienza del suo peccato: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”[9]. È percependo la grandezza di Dio che si prende coscienza della propria piccolezza. Ed è in questo rinnovato orizzonte d’amore divino che Gesù gli trasfigura l’esistenza, senza stravolgergliela: Pietro continua a essere pescatore, ma pescatore di uomini. Ecco il senso autentico della metanoia, ovvero della conversione: cambiare modo di pensare senza smettere di pensare; cambiare modo d’amare senza smettere d’amare. Pietro, pur conservando la mentalità di pescatore, comincia a pensare in modo nuovo, ad avere una nuova visione della pesca e della vita. Quell’abbondanza di pesce gli fa intuire l’infinito amore che Dio prova per lui. Egli, che fino ad allora aveva proiettato tutto il suo futuro nella pesca, ora capisce che è Cristo il “tutto” della sua vita. Gesù diventa l’assoluto a cui dedicare totalmente tutto se stesso. Cristo costituisce la pienezza e il compimento della sua esistenza.

Alla luce di questo brano ci chiediamo: a quale esperienza di fede Gesù ci invita con questo episodio evangelico? Lasciandoci ispirare dalla metodologia spirituale di Sant’Ignazio di Loyola che, nel tentativo di cogliere il significato di un brano evangelico, invita il lettore ad immaginare la scena, ci chiediamo: se fossimo stati al posto di Pietro, come avremmo reagito alla provocazione di Gesù di gettare le reti dopo un’amara esperienza di delusione? Per saperlo basta verificare come reagiamo, nel quotidiano, a quelle sollecitazioni o provocazioni interiori dello Spirito, quando anche noi come Pietro, siamo attraversati da esperienze di scacco, di fallimenti, di stanchezza fisica e scoraggiamento psicologico, da crisi spirituali che rimettono in discussione tutto il nostro futuro, la nostra fede, tarpandoci le ali della speranza.

Due vocazioni: l’una profetica, l’altra apostolica. Entrambe rivolte a rendere partecipi gli uomini dell’amore di Dio. È su questa base che comprendiamo l’esperienza missionaria di Paolo. Egli che non si degnava neppure di essere chiamato apostolo, per aver perseguitato la Chiesa di Dio (cf. 1Cor 15,9), come già Isaia e Pietro, capisce di avere un solo scopo: comunicare l’amore di Dio, nella stessa forma evangelica di come l’aveva ricevuto da Cristo (cf. 1Cor 15,3). Alterarlo significa svilire questo amore della sua forza trasfigurativa e salvifica. Senza questa eccedenza d’amore diventa praticamente difficile rimanere fedele alla chiamata di Dio. Chiediamo perciò a Dio – con Isaia, Pietro e Paolo – la grazia di riversare il suo amore anche nei nostri cuori (cf. Rm 5,5), affinché anche noi possiamo condividere con gli altri ciò che abbiamo ricevuto da Cristo.

 

 


[1] I brani biblici di Isaia, di Pietro e di Paolo, sia pure con modalità diverse, rilevano caratteristiche della chiamata: teofanica e trascendente quella di Isaia; quotidiana e relazionale quella di Pietro, mistico-rivelativo quella di Paolo.

[2] Rimanere saldi e fedeli alla propria chiamata (cf. 1Cor 15,1), specie nei momenti più bui delle crisi, è indice di maturità spirituale. Fedeltà e solidità nella fede e ciò a cui anche noi, come Gesù, siamo chiamati in questo particolare momento di prova ecclesiale che stiamo attraversando.

[3] I Vangeli non ci raccontano episodi precisi della chiamata di Gesù, alla maniera di quella di Isaia (cf.Is 6,1-8), Geremia (cf. Ger 1,4-10.17-19), Ezechiele (cf. Ez 1,1-28), ma ci parlano di un’intensa relazione d’amore che egli vive quotidianamente col Padre, da essere con lui una sola cosa (cf. Gv 10,30). Questa unità d’amore è ciò che giustifica l’infinita compassione e solidarietà che lui nutre per la gente (cf. Mt 5,7; 9,35-36; 14,13-14; 15,32).

[4] Gli evangelisti non si soffermano a descrivere, sotto il profilo psicologico, esperienze di crisi, come questa di Gesù, ma a giudicare dalla conclusione del brano lucano: “Gesù passando in mezzo a loro se ne andò” (Lc 4,30) e dal repentino ritorno di Gesù a Cafarnao – dove riprende regolarmente a predicare e a insegnare nella sinagoga (cf. Lc 4,31-36) – si coglie la straordinaria capacità di Gesù nel superare le prove fallimentari, come quella di Nazaret. Egli, a differenza nostra, è, per così dire, così concentrato a tenere lo sguardo fisso su Dio (cf. Eb 12,2) da non avere tempo per lasciarsi condizionare dalla sue delusioni.

[5] Il contesto della pesca miracolosa entro cui Luca inserisce l’episodio della chiamata, presenta molte affinità con quello narrato da Giovanni dopo la Risurrezione di Cristo (cf. Gv 21,1-13). Anche in questo caso si assiste ad un nuovo inizio e ad una nuova chiamata, alla quale allude Giovanni con la vita nuova inaugurata dal Risorto. Non sappiamo quando sia realmente accaduto il miracolo della pesca miracolosa, se prima o dopo la Risurrezione di Gesù, sta di fatto che Luca lo colloca nel contesto della chiamata dei primi discepoli, come a volerci offrire la chiave di lettura dell’esperienza di fede alla quale egli ci invita.

[6] Si capisce allora la ragione per cui Cristo viene definito “Verbo”: mentre il profeta parla a nome di Dio, Cristo è la “Parola” stessa di Dio

[7] Quando la volontà di Dio viene percepita come una costrizione è indice che non si è ancora fatto un’autentica esperienza d’amore divino. Tradotto in un linguaggio figurato, significa che non si è ancora uscito dall’Egitto (schiavitù del peccato), non si è ancora attraversato il Mar Rosso (morto a se stesso, al proprio egocentrismo), e non si è ancora entrato nella terra promessa (comunione con Dio).

[8] L’autore della lettera agli Ebrei ci parla di un crescente rivelativo di Dio che da Abramo, attraverso Mosè e i profeti, si è definitivamente compiuto in Cristo (cf. Eb 1,1-4), il quale rende pienamente manifesta la volontà di Dio, ovvero il piano salvifico col quale ha inteso redimere gli uomini.

[9] Una comprensione questa che lascia intravedere la metodologia spirituale di Gesù. Egli, contrariamente alla prassi religiosa del tempo – come di tutti i tempi ed esperienze religiose – che richiedono un previa preparazione morale, fa fare prima un’esperienza d’amore e solo nella sua luce fa prendere coscienza del proprio peccato. La coscienza del peccato non nasce da un’analisi morale introspettiva, ma da una ricollocazione della propria esistenza nell’amore di Dio. È in questo rinnovato orizzonte esistenziale, colmo di stupore e meraviglia (cf. Lc 5,9), che Pietro si sente invaso dell’abbondanza e infinita generosità dell’amore di Dio, alla cui luce prende coscienza della sua reale identità: “allontanati da me che sono un peccatore”.

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